mercoledì 14 gennaio 2009

Prospettive netfuturiste (3)
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web 1.0, web 2.0, Jimmy Wales e netfuturismo
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di Antonio Saccoccio
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Un paio di mesi fa Jimmy Wales, il creatore di wikipedia, ha effettuato una critica all’attuale sviluppo del web 2.0. In realtà per il padre di wipedia molto web sarebbe, nonostante le apparenze, ancora allo stadio 1.0. La critica maggiore è stata rivolta a You Tube: “se guardate ad esempio a tutto quello che c'è su YouTube si tratta di singoli che fanno video, non c'è ancora stato un progetto collaborativo in larga scala in questo senso”.
Per Wales quindi spesso l’utente scambia la condivisione, enorme, per collaborazione, che invece è quasi inesistente. C’è poco da dire. Wales ha centrato il bersaglio. Si potrà non condividere in toto le affermazioni su You Tube, ma in realtà ha ragione quando afferma che il web 2.0 esiste solo sulla carta ed è per molti totalmente sconosciuto. Wales denuncia quello che il net.futurismo definisce presentismo tecnologico: l’uso incosciente delle nuove tecnologie e dei nuovi media. Essere realmente innovativi oggi è creare un network che abbia dei reali obiettivi. Non è passare ore a scambiarsi messaggi inutili e imbecilli sui vari messenger o su facebook o pubblicando patetici video su YouTube. Il netfuturismo ha offerto un modello per il web 2.0: la costruzione e la diffusione di un network creativo a partire dall’aggregazione sul web. Il blog non può bastare. La creazione dei GSPPN creati da www.netfuturismo.it si spinge talmente in avanti che il semplice blogger non può neppure intuirne le potenzialità.
Il progetto ContrAgorà, seppure ancora nelle fasi iniziali, è un'altra realtà che si propone di andare oltre i blog vetrina: aggregazione e confronto a partire da alcune idee condivise.Questo è il web 2.0 nella sua fase più matura. Anzi. In questi casi siamo probabilmente già molto oltre il web 2.0.

Antonio Saccoccio (tratto da http://liberidallaforma.blogspot.com/ )

martedì 13 gennaio 2009

POST DI CEDOLIN E VACCA
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La “casta” del gas
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di Marco Cedolin
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In Italia esistono giornalisti “famosi” che pur essendo diventati tali dopo avere scritto libri ed articoli di pesante denuncia del “sistema”, continuano allegramente a fare parte della sua elite, scrivendo sulle pagine dei quotidiani più importanti e comparendo nelle trasmissioni in TV con la stessa frequenza di quanto accade agli uomini politici di grido. Giornalisti che con il loro lavoro di “denuncia” del sistema, prodotto con l’ausilio dei finanziamenti che il sistema stesso ha messo loro a disposizione, sono riusciti a ritagliarsi una posizione di favore all’interno della quale possono godere di grande credibilità presso l’opinione pubblica. Credibilità che una volta conquistata potrà essere da loro capitalizzata rendendo utili favori al “deprecabile” sistema che li nutre e li foraggia.
E’ il caso del buon Gian Antonio Stella, nato nel paese che fu di Eleonora Duse e divenuto più che famoso nel 2007 dopo la pubblicazione del best seller La Casta, al quale ha fatto seguito l’altrettanto mordace La deriva dello scorso anno. Stella, grande estimatore della crescita e dello sviluppo, come si può evincere da molti suoi scritti, ha dedicato una “marchetta” alla casta del gas, quella costituita da ENI, Edison, Enel, Hera, Exxon Mobil, Eon, Gas Natural, Erg, Gaz de France, partorendo un curioso articolo titolato “Il NO ai rigassificatori: bocciano i progetti e stiamo al gelo” che ha trovato pubblicazione sabato scorso sulle pagine del Corriere della Sera.
Nel suo pezzo l’ardimentoso Stella divide gli ambientalisti “buoni” (quelli legati a Legambienteche contestano il nucleare ma apprezzano i rigassificatori e gli inceneritori) da quelli “cattivi” (che si oppongono a tutti gli scempi e le nocività ambientali), dedicando a questi ultimi alcune righe cariche di disappunto ed ironia. Mette alla berlina i livornesi che si battono contro la costruzione del rigassificatore off shore, ironizzando sul rischio derivante da un’eventuale esplosione dell’impianto, arrivando perfino a definirli “ayatollah ecologisti toscani”. Irride gli ambientalisti di Panigaglia, vittime a suo dire dell’effetto “nimby”, contesta i cittadini che si oppongono (senza che lui ne comprenda il perché) al rigassificatore di Brindisi e lancia i propri strali contro coloro (dalla sinistra radicale, a Sgarbi, fino al centrodestra) che stanno impedendo la costruzione del rigassificatore di Porto Empedocle in Sicilia, con giustificazioni di carattere archeologico e paesaggistico che Stella giudica incomprensibili.
Se tanto livore nei confronti degli ambientalisti, quelli non allineati con la lobby del cemento di Ermete Realacci di cui Stella nel pezzo si manifesta estimatore, non può mancare di lasciare basito chiunque conosca appena un poco in profondità le questioni ambientali, ancora più stupore provocano gli argomenti che il giornalista porta a giustificazione del livore stesso.
Stella nel suo articolo tenta infatti d’indurre il lettore a credere che a causa della mancanza dei rigassificatori l’Italia rischi seriamente di rimanere al gelo per mancanza di gas, nel caso di eventuali problemi sulla rete dei gasdotti, arrivando a vaticinare di abitazioni congelate, fabbriche bloccate e trasporti paralizzati. Un quadretto degno dei migliori film “catastrofici” a stelle e strisce, tanto più drammatico in un paese come l’Italia che, a suo dire, avrebbe abbandonato il nucleare, senza imboccare le strade alternative delle energie rinnovabili, all’interno delle quali il buon Stella annovera anche i "Termovalorizzatori" dimostrando in maniera inequivocabile come stia sproloquiando riguardo a cose di cui non ha la benché minima conoscenza.
Pur incorrendo nel rischio di rovinare una bella “marchetta”, credo sia doveroso tranquillizzare gli italiani, riportando il piano del discorso dal fantasy alla realtà. Nonostante sia costretta ad importare dall’estero buona parte del gas che consuma, l’Italia gode infatti di una rete di gasdotti (buona parte dei quali già in fase di potenziamento quando non di costruzione ex novo) in grado di consentirle l’approvvigionamento di quantitativi di gas notevolmente superiori al proprio fabbisogno attuale e futuribile. Basti pensare che è in dirittura di arrivo il potenziamento del gasdotto algerino Ttpc che trasporterà 6,5 miliardi di metri cubi di gas in più l’anno, l’ENI ha già iniziato il potenziamento del gasdotto Tag che trasporta in Austria il metano estratto dai giacimenti siberiani, per consentire il trasporto aggiuntivo di 3,2 miliardi di metri cubi annui. Entro la fine del 2012 la società Galsi s.p.a. della quale fanno parte Edison, Enel ed Hera, dovrebbe terminare la costruzione di una nuova pipeline di 2280 km che via Sardegna trasporterà annualmente 8,5 miliardi di metri cubi di metano aggiuntivo dall’Algeria a Piombino, in Toscana, il cui tratto off shore risulterà il più profondo al mondo raggiungendo la profondità di 2.880 metri. Nel corso del 2013 inoltre dovrebbe essere inaugurato il gasdotto South Stream che attraverso la Grecia trasporterà il gas russo fino in Puglia.
I rigassificatori in progetto e quelli esistenti, Panigaglia e Rovigo costato 2 miliardi di euro e posizionato al largo della foce del PO, tanto cari a Gian Antonio Stella, non serviranno al nostro Paese per sfuggire al destino di una catastrofe incombente fatta di gelo e galaverna. Semplicemente saranno destinati a trasformare l’Italia in una sorta di hub energetico attraverso il quale la “casta” dell’energia a braccetto con quella della politica (che Stella ama fustigare nei suoi best seller) potrà accumulare profitti miliardari, lasciando il conto da pagare ai contribuenti e all’ambiente. Quell’ambiente la cui salute, a dispetto dei giornalisti e delle loro marchette, non si divide fra buoni e cattivi ma continua a rimanere un qualcosa di oggettivo ed incontrovertibile.
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Marco Cedolin
Faber, il poeta che non muore mai
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di Nicola Vacca
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La bellissima serata televisiva organizzata da Fabio Fazio in memoria di Fabrizio De Andrè è stata strepitosa.
Non c’era modo migliore per ricordare il grandissimo poeta della canzone d’autore a dieci anni dalla sua scomparsa. La parola del più grande cantautore italiano è alta nei sentimenti. De André ha sempre pensato le sue canzoni andando sempre in direzione ostinata contraria. Fabrizio è ancora oggi un poeta che sta in mezzo alla gente, che lo ama soprattutto per la sua schiettezza corsara e irriverente. Le sue parole sono indimenticabili perché parlano al cuore dei semplici, raccontano le storie della quotidianità offesa dal conformismo che spadroneggia con le sue maschere d’ipocrisia.
È stato scritto e detto tutto sulla grandezza di Fabrizio De Andrè. Ma la sua straordinaria poesia anarchica d’amore è una grande lezione di vita e di umanità a cui oggi dovremmo guardare, se ancora vogliamo dare una speranza a questa decadenza morale che sta distruggendo tutto. Nessuno come lui ha saputo leggere il libro del mondo.
Se oggi Fabrizio fosse ancora vivo scriverebbe con parole leggere, parole d’amore. Come ha sempre fatto nella sua vita. Non morirà mai Fabrizio De André, il grande poeta che ci ha insegnato a non rinunciare mai alla parte migliore di noi stessi("Nella pietà che non diventa rancore ho imparato l'amore").
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Nicola Vacca (tratto da http://nicolavacca.splinder.com/ )

lunedì 12 gennaio 2009

Post di Guido Aragona e Carlo Gambescia

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Il giallo del comunicato Flaica-Cub
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di Guido Aragona
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Nei giornali, non c'è nessun giallo. Si parla di un sindacato di estrema sinistra, Flaica-Cub, che ha invitato al boicottaggio degli esercizi commerciali degli ebrei, una cosa ovviamente da far rabbrividire, per giunta con promesse di fare precise liste di essi. Lo sdegno, naturale, di tutti; Alemanno che si compra la cravatta in un negozio al ghetto; i bloggers indignati. Ecc.
Però, Flaica-Cub smentisce: dice che il boicottaggio era rivolto solo ai prodotti israeliani. Misura che si può certo non condividere ed anche deprecare (così come approvare). Però proposta con orgoglio da moltissimi per la Cina (sui prodotti ed olimpiadi) ai tempi della repressione in Tibet. E addirittura suggerita da esponenti governativi di Bush per i prodotti francesi al tempo del rifiuto della Francia alla iniziativa USA di invasione dell'Iraq.
Vediamo il loro sito e il comunicato in rete:
http://www.cub.it/article/?c=flaica-cub&id=5058
Nei giornali non c'è nessun "giallo". Si dà per scontato che abbiano fatto "marcia indietro". In rete si trova ad esempio un tentativo di documentazione di tale marcia indietro, pubblicando il testo di un volantino che sarebbe stato distribuito da detto sindacato; ad es. "Focus on Israel" : http://www.focusonisrael.org/2009/01/08/flaica-boicottaggio-negozi-ebrei/
Ma a ben pensarci questo volantino non costituisce una prova. Chi può provare che tale volantino sia stato stampato e distribuito effettivamente dal sindacato che lo ha firmato, e non sia invece un falso? Flaica Cub insiste per una smentita a Repubblica http://www.cub.it/article/?c=&id=5057
Per me dunque c'è un giallo: potrebbe essere che il volantino e comunicato aberrante ci sia stato e poi sia stato ritirato per evidente indegnità. Ma potrebbe anche darsi che sia stata una montatura, o un falso. Mi resta il dubbio.
Esame delle probabilità:
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1) probabilità del "comunicato ritirato". Il comunicato relativo al boicottaggio dei negozi degli ebrei e della loro lista contiene qualcosa di innegabilmente repellente alla coscienza comune dell'italiano medio, checchè chiunque possa pensarne; per cui sembra comunque difficile che un sindacato, per quanto marginale, decidesse di proporre una misura così aberrante. Può comunque esserci l'incidente: un funzionario idiota e razzista che prepara un volantino non controllato e lo fa distribuire, sputtanando il suo sindacato ed ottenendo l'effetto contrario a quello che avrebbe voluto. La reazione, che mi pare un po' fiacca del "Flaica" (nome fiacchino pure lui) può dare indicazione di favore alla tesi dell'errore (grave).
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2) probabilità del "comunicato contraffatto". Nota la proposta della Flaica del boicottaggio dei prodotti israeliani, viene preparato un testo per confondere questo boicottaggio con la misura repellente e razzista del boicottaggio dei negozi degli ebrei. Questo consente sia di sputtanare e mettere in luce sinistra, oltre al sindacato in questione, chi ha proposto il boicottaggio dei prodotti israeliani in genere, sia di alleggerire, agitando lo spettro del razzismo, la situazione generale di ostilità, che sta crescendo, alla politica israeliana. Questa ipotesi del falso è possibile: è una azione di falso efficace, e non è facilmente smentibile. E, benché viga sempre la prima legge della stupidità enunciata da Carlo Cipolla (Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione), la logica ci propone invece di pensare che sia più probabile che venga fatta una azione efficace al suo scopo che una controproducente.
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Resta, per me, il giallo, e la necessità, specie in momenti critici, di mantenere il sangue freddo e di fare inchiesta il più possibile, al di là delle indicazioni non sufficientemente analitiche, e tendenti a creare casi e clamore, dei principali giornali. E il dato di fatto inquietante: una notizia dubbia, data per certa mille volte sarà, nella coscienza dei più, una verità. Chissà di quante la nostra coscienza è composta. Chissà: forse la nostra coscienza è sempre più intessuta di nulla "mediatico".

Resta comunque un fatto: che questo comunicato sia stato "abortito" o che sia falso, si tratta comunque di un "comunicato fantasma". E nei media, viene indicato invece come un fatto. E diviene un pretesto gonfiato per dichiarazioni e azioni pubbliche dimostrative di esponenti delle istituzioni. Perchè, se davvero fosse un fatto, non è partita invece nessuna legittima denuncia per istigazione al razzismo?



Guido Aragona (tratto da http://bizblog.splinder.com/post/19540951/Il+giallo+del+comunicato+Flaic )

Psicologia a scuola? Parliamone
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di Carlo Gambescia
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Quale può essere il ruolo terapeutico della psicologia nella nostra società del rischio e, in particolare, nelle scuole di ogni ordine grado?
Rispondere non è facile soprattutto per l’Italia, dove una recente indagine condotta dall’Ordine Nazionale degli Psicologi in collaborazione con gli Istituti Regionali per la Ricerca Educativa (a disposizione, per sintesi, di chiunque la richieda
carlo.gambescia@gmail.com ), rivela come tuttora manchi una legge per regolare la figura dello psicologo scolastico. Per contro, come mostrano i dati nazionali sull’uso di psicofarmaci, sembra che un italiano su due, ormai vi ricorra abitualmente. Come del resto, pare esista una tendenza ben delineata, di derivazione culturale statunitense, alla somministrazione massiccia di psicofarmaci ai bambini particolarmente vivaci. Per “sedarli”, spesso si legge, e far loro condurre un vita normale…
Il che indica che si preferisce, almeno negli Stati Uniti, alle indagini sulle ragioni del malessere psichico, al lavoro come scuola, svolte dallo psicologo, la somministrazione autoritaria a scopo lenitivo di psicofarmaci da parte di medici e psichiatri.
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La società del rischio
Ma procediamo per ordine. Abbiamo parlato di società del rischio. Perciò dobbiamo definirla.
Oggi l’uomo vive male: incertezza, angoscia e paura segnano la sua condizione in tutti i campi. Sul terreno economico (insicurezza del posto di lavoro), sociale (apprensioni diffuse per l’ incolumità fisica e la protezione dei beni posseduti ), politico ( timori di guerre e attentati terroristici), scientifico (diffidenza verso l’ambiguo linguaggio degli scienziati) e ambientale (paura di catastrofi ecologiche, provocate dall’ intensivo sfruttamento tecnologico della natura).
Alcuni studiosi hanno definito la nostra società come “società del rischio”. Se la società del tardo XIX secolo, o della seconda metà del XX, era una società della sicurezza, basata su alcuni punti fermi (valori borghesi, crescita economica, welfare), Quella del XXI è una società dell’ “insicurezza”, priva di valori stabili.
Ma c’è dell’altro: la società del rischio ha generato individui vulnerabili: uomini, donne, ragazzi, adolescenti e perfino bambini con una particolare disposizione ad essere moralmente feriti, incapaci di difendersi e reagire, e quindi bisognosi di aiuto. Il confuso groviglio di paure sociali ha prodotto personalità deboli: individui, così oppressi dalla vita (o comunque che si ritengono tali), da rifugiarsi in un mondo privato, fatto di microcertezze (piccole abitudini quotidiane: vedere un film, andare a cena al ristorante, fare shopping, un piccolo viaggio, eccetera): un universo privatissimo, dove, come ripete il megafono consumista, si può gode di una vera libertà. Un micromondo “inaccessibile”, allo spaventoso mondo delle “macroincertezze” , di cui si ha ogni giorno eco: basta accendere la televisione e seguire uno dei tanto programmi informativi “urlati”.
Di qui, per vivere in sintonia con una società mediatizzata che sottopone l’individuo a dosi massicce di consumismo e paura, la possibilità di rispondere in due modi: o attraverso l’abuso di psicofarmaci, o, come si dovrebbe, soprattutto per i giovani in età scolare, dove spesso il malessere individuale sfocia in atti di bullismo e/o autolesionistici, con il ricorso al terapeuta. Ma come ricorrervi - ecco il punto della questione - se a scuola non esistono presidi di tipo istituzionale?
E qui ritorniamo alla situazione italiana. E ai dati, molto negativi, della Ricerca svolta in argomento dall’ dall’Ordine Nazionale degli Psicologi in collaborazione con gli Istituti Regionali per la Ricerca Educativa (I.R.R.E.).
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La situazione italiana
In Italia 65.000 psicologi esercitano la professione. Bene, secondo la ricerca la presenza di psicologi scolastici nel sistema educativo italiano è pari a zero. Siamo davanti a una situazione dove a scuola il ruolo dello psicologo non è riconosciuto, non è istituzionalizzato. E dove le attività dello psicologo, sono svolte senza alcuna continuità strutturale. In pratica, l’Italia è l’unico Paese europeo che non ha tuttora attivato nelle scuole un servizio permanente di psicologia.
I psicologi presenti nelle scuole, a titolo occasionale, sono 1.500. E in ogni caso se ne possono stimare non più di 3.000, pari a meno del 5% dei professionisti psicologi che operano in Italia. Un quadro veramente preoccupante.
Psicologi, che potrebbero essere impiegati in numerosi campi. Citiamo dalla Ricerca, riprendendone la terminologia tecnica: si pensi al potenziamento dell’efficacia ed efficienza delle attività formative e didattiche erogate dal sistema regionale scolastico; allo sviluppo organizzativo e della qualità delle condizioni di lavoro e comunitarie entro le istituzioni scolastiche; allo sviluppo dei rapporti scuola-famiglia; alla crescita virtuosa delle relazioni di rete interne al sistema scolastico regionale e tra questo e i soggetti istituzionali e della società civile regionale; alla promozione del benessere psicosociale dell’utenza scolastica e del personale operante entro il sistema scolastico regionale; alla prevenzione primaria e secondaria dei fenomeni di insuccesso formativo, di abbandono, di dispersione, di bullismo, vandalismo; alla prevenzione primaria e secondaria del disagio giovanile e delle forme comportamentali e simboliche attraverso cui si manifesta (stili di vita e comportamenti a rischio, modelli devianti di azione sociale).

Pericoli: dalla società del rischio alla” società terapizzata”
Esiste pertanto un problema di introduzione, istituzionale, e per così dire fisiologica, della figura dello psicologo all’interno del sistema scolastico.
Esiste però anche il rischio opposto. Quello di eccedere in chiave patologica: di peccare per eccesso. Certo, la realtà italiana è ancora lontana da quella americana, dove lo psicologo è molto presente, forse troppo. Anzi, dove addirittura, come alcuni temono - si pensi a certi corrosivi scritti di Christopher Lasch - si rischia la “terapizzazione” totale della società e degli individui, fin da piccoli.
Parliamo del rischio che lo psicologo assuma il ruolo di una specie di soffocante Super Ego, rivolto a seguire passo passo l’individuo, nel quadro delle talvolta tentacolari istituzioni welfariste, consigliandolo, condizionandolo, eccetera, anche negli aspetti più intimi della sua vita sociale: dal sesso, alla famiglia, all’educazione dei figli.
Ma non è questa sicuramente, ripetiamo, la situazione italiana. Comunque sia, si tratta di un pericolo da tenere nel dovuto conto.


La scelta italiana
Per tornare all’Italia, si avverte invece la necessità, come mostra la Ricerca, di un “servizio di psicologia scolastica” - anche qui citiamo - fondato su alcune funzioni riferite alle seguenti “tipologie di attività realizzate in collegamento e collaborazione, fatte salve le rispettive competenze ed autonomie, con altri servizi territoriali, con le Università e le società scientifiche di settore, le strutture e gli uffici del sistema scolastico regionale, le parti interessate: elaborazione di modelli interpretativi, strategie, metodologie e strumenti di intervento (anche attraverso specifiche forme di sperimentazione) nei diversi ambiti di interesse (didattica, organizzazione scolastica, relazioni intra ed interistituzionali)”.
Si tratta insomma di un intervento capace anche di emendarsi nel tempo, evitando così derive eccessivamente “terapizzanti” di tipo americano.
Nella Ricerca si accenna in particolare ai seguenti punti: “a) monitoraggio e analisi quali-quantitativa dei processi e delle dimensioni psicologiche intervenenti come fattori critici o di successo nell’erogazione dei servizi offerti dalle istituzioni scolastiche e nei processi di insegnamento-apprendimento; b)rilevazione della domanda formativa rivolta al sistema scolastico regionale; c)progettazione e realizzazione di iniziative formative rivolte al personale scolastico e agli altri soggetti implicati nel sistema scolastico regionale; d)partecipazione alla progettazione e/o alla valutazione di interventi e sperimentazioni relative ai diversi ambiti di competenza precedentemente richiamati; e) realizzazione di attività finalizzate ad orientare la domanda di competenze ed interventi psicologici delle istituzioni scolastiche”.
Come si può vedere, ripetiamo, siamo davanti a una proposta ampia e organica, alla quale Governo e Parlamento devono dare una riposta politica e legislativa.
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Conclusioni. La ricerca di una terza via
Adriano Segatori, psichiatra-psicoterapeuta, in una bellissima intervista (Dove va l’anima?, a cura di Angela Deganis, Edizioni Settimo Sigillo 2007) ha ricordato la presenza nell’universo della ricerca psicologica teorica e applicata, ma anche nella sua pratica, di due fondamentalismi “apparentemente opposti ma proceduralmente affini”.
Da un lato il modello “cerebroiatrico” volto alla ricerca del “funzionamento minuzioso del cervello … con l’obiettivo di intervenire farmacologicamente per la rapida manutenzione dello stesso, la regolarizzazione dei comportamenti e la rapida rimessa in funzionamento sociale del soggetto interessato”. Dall’altro lato, il procedimento socioiatrico che sottostima e squalifica qualunque necessità di intervento psicologico puntando sulla demagogica rivendicazione di diritti, di libertà di decisione…, senza alcuna sensibilità per i fattori inconsci, le dinamiche psicologiche intrafamiliari, gli stili comunicativi interpersonali”. I primi sono affetti da “panmaterialismo metafisico”, i secondi da “pansociologico meccanicismo”.
Ecco, una buona psicologia sociale, anche estesa al campo scolastico, dovrebbe tenere presente questi due limiti, così ben individuati da Adriano Segatori.
Il che può non essere facile. Soprattutto nel mondo di oggi dove l’individuo pare chiedere al tempo stesso il massimo della libertà e il massimo della protezione dalla società del rischio.
Ma bisogna provare. Occorre, come indica chiaramente la Ricerca qui ricordata, una terza via. E soprattutto coraggio politico.
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Carlo Gambescia

venerdì 9 gennaio 2009

POST DI NICOLA VACCA E MIGUEL MARTINEZ
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La memoria corta di AIleanza Nazionale
I martiri di Acca Larentia
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di Nicola Vacca
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Il 7 gennaio del 1978 davanti alla sezione del Msi in via Acca Larentia Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta furono trucidati a colpi di mitraglietta da giovani estremisti di sinistra. Qualche ora dopo, il giovane Stefano Recchioni fu ucciso da un carabiniere durante gli scontri con le forze dell’ordine.
Nel trentunesimo anniversario della morte dei tre giovani del Fronte della Gioventù , il sindaco di Roma ha proposto di intitolare una via ai tre ragazzi uccisi dall’odio ideologico. Questa potrebbe anche essere una cosa buona. Ma il discorso è più complesso. La memoria va a quegli anni terribili di mani levate, di scontri ,di idee, di sentimenti. Anni che sono sfociati in una violenza inaudita . Numerosi i giovani che sono caduti per un’idea negli anni Settanta. Molti di quei martiri oggi non hanno avuto ancora giustizia.
A pagare il prezzo più alto sono stati i cosiddetti Cuori neri. Dal rogo di Primavalle, al feroce assassinio di Sergio Ramelli, alla strage di via Acca Larentia, questa è la memoria insanguinata della destra italiana.
Una comunità politica che si rispetti, e che non ha nessuna intenzione di rinunciare alla propria identità, ha il dovere di onorare i suoi martiri e di ricordare sempre che le idee camminano sulle gambe degli uomini.
Oggi la destra italiana si è smarrita, è naufragata nel mare comodo dell’opportunismo. Per volere esplicito di Gianfranco Fini Alleanza Nazionale, nata dalle ceneri del Msi, è diventata persino antifascista.
Non è un caso che il presidente della Camera, che conosceva benissimo i ragazzi trucidati in via Acca Larentia, non abbia pronunciato nemmeno una parola sul tragico assassino dei suoi amici. Eppure, Gianfranco Fini in quegli anni terribili era un militante del Msi, ha assistito in prima persona alla violenza degli scontri. Fini ha condiviso un cammino con i giovani di destra assassinati che oggi non ha più voglia di ricordare.
Sono pochi gli esponenti di Alleanza Nazionale che hanno reso omaggio ai martiri di Via Acca Larentia.
A sottolineare l’imbarazzo del partito di Fini ci ha pensato il Secolo d’Italia. Il quotidiano di An non ha dedicato nemmeno una riga alla memoria dei tre giovani assassinati.
Negli anni settanta ragazzi di destra e di sinistra avevano degli ideali e per quelli sono morti. Gli antifascisti non hanno rinunciato a ricordare i loro. Esponenti del Pd hanno bocciato la proposta di Gianni Alemanno di intitolare una strada ai martiri di via Acca Larentia perché questo è avvilente per Roma, città medaglia d’oro della Resistenza.
Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini decide di non ricordare i suoi martiri e di abbracciare quello stesso antifascismo che il 7 gennaio di trentuno anni fa armò la mano assassina di tre giovani che credevano in un ideale.
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Nicola Vacca (tratto da http://nicolavacca.splinder.com/ )


di Miguel Martinez (Kelebek)

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Pigman è il supereroe creato da un certo Bosch Fawstin di New York, un disegnatore di origine albanese molto apprezzato tra i circoli dei seguaci di Ayn Rand.
Pigman - che deriva il proprio nome dalla nota disaffezione islamica per la carne di maiale - è un'ennesima incarnazione della fantasia maschile tutta contemporanea e occidentale, di un essere per metà umano e per metà macchina, che dice poco e spacca tutto.
Pigman è la metafora di molte cose.
Prima di tutto, è roba di maschi per maschi. Dove la dimensione maschile si riduce all'elemento unilaterale dell'omicidio, in perfetto parallelo alla puttanizzazione in stile Jeune-Fille.
Mentre gli eroi della tradizione europea, mediorientale e forse universale, devono confrontarsi continuamente con la propria morte, Pigman è nel mondo solo per uccidere, non certo per affrontare il proprio destino o scoprire se stesso. In questo, Pigman possiede la natura univoca, infantile delle merci, che si presentano sempre e solo per quanto di gradevole possiedono.
Pigman rovescia e maschera il rapporto reale che esiste tra uomini e macchine all'interno del più grande apparato bellico che la storia umana abbia mai visto: la potenza infinita delle cose si accompagna alla coscienza della propria assoluta impotenza umana. Cosa mai potrebbe fare da solo il disoccupato statunitense così sfortunato da essere costretto ad arruolarsi, contro un ragazzino iracheno pronto a morire?
Pigman divide il mondo in Noi e Loro, come fa una vasta parte della letteratura pop statunitense. Solo che quel Noi e quel Loro non corrispondono al modello etnico o storico europeo. Gli Stati Uniti sono un'idea collettiva a cui gli individui sradicati aderiscono; e dimostrano la loro adesione, uccidendo chi si oppone a quell'idea collettiva. Infatti, Pigman è di origini etnicamente islamiche - come lo stesso Bosch Fawstin, figlio di generazioni di albanesi atei o comunque indifferenti - ma è "americano" in quanto sterminatore di persone che non condividono i "valori americani".
Questa è la grande forza dell'immaginario statunitense, che riesce così a sfruttare tutta la potenza psicologica del razzismo, proprio mentre integra incessantemente nuovi elementi.
Pigman ci fa cogliere un eterno problema della letteratura conforme, che possiamo riassumere nella domanda, che gusto c'è a rubare ai poveri per dare ai ricchi, come faceva lo straordinario Superciuk nei fumetti di Alan Ford? Che avventura è, passare e ripassare sopra un villaggio, con il miglior bombardiere del mondo?
La destra americana risolve da sempre questo dilemma in un unico modo: con la tesi delle Mani Legate. “Pigman does the job politically correct Washington won’t let our soldiers do,” spiega Fawstin.
Noi siamo buoni e loro sono cattivi. E purtroppo la nostra bontà porta il governo a obbedire meticolosamente alle regole.
Ecco che emerge il supereroe, che viola quelle regole - e quindi si mette in qualche modo contro i potenti - per poter fare agli altri quello che serve.
Questa finzione serve a due scopi. L'imperialismo è necessariamente schizofrenico: i massacri e il saccheggio su cui si fonda si nobilitano nella cortesia, nel rispetto delle regole, che permette ai massacratori di sentirsi moralmente superiori. Il sistema così mantiene un'immagine permanentemente gentile, ma ogni tanto diventa necessario esprimere il lato oscuro: una funzione delegata a quella forma di pornografia sadica che sono le opere riguardanti i supereroi, la letteratura di spionaggio e così via.
Ma violare le regole permette al supereroe di emergere per un attimo come individuo e non come ciò che è: l'ennesimo ingranaggio di una macchina di sterminata potenza fisica e infinita miseria spirituale.
Sopra il titolo del post una vignetta di Pigman dedicata all'attacco israeliano contro i nativi palestinesi a Gaza. Vignetta che ci riporta al nostro tema (altre due vignette qui: http://kelebek.splinder.com/post/19530681/Pigman%2C+il+peggio+d%27America ).

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Miguel Martinez (Kelebek)

giovedì 8 gennaio 2009




Post di Truman Burbank e Marco Cedolin

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Kidnapped!
Israele e la sindrome del bambino viziato

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di Truman Burbank


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Conviene ricercare archetipi nel comportamento dei media, perchè la propaganda è basata su semplici stilemi.
Nella merda mediatica che i cosiddetti organi di informazione ci vomitano addosso in continuazione c'è uno stereotipo ricorrente: il soldato israeliano rapito ("kidnapped" in inglese). Il termine inglese rende meglio di quello italiano ciò che i media vorrebbero suggerirci, cioè che i soldati in assetto da guerra che invadono terre di altri per uccidere e rubare, attrezzati con la migliore tecnologia bellica che si possa acquistare, siano in realtà dei bambini ("kids" in inglese).
In pratica a chi combatte contro Israele non viene riconosciuto lo status di combattente, capace di catturare un nemico. Se Hamas o Hizbollah riescono a prendere un prigioniero, nei media di regime il prigioniero è stato "rapito".
Il profitto ideologico dell'operazione è almeno doppio:
1) il militare israeliano viene fatto apparire come un povero essere indifeso;
2) si nega ai nemici la dignità di organizzazione militare, di combattenti organizzati.
Però, in un ardito capovolgimento semantico, tutti i civili assassinati dalle forze armate israeliane diventano invece "miliziani" o "combattenti".
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La sindrome del bambino viziato
L'immagine precedente viene confermata da un altro punto di vista. Quando Israele attacca gli altri, compare sempre la scusa che è stato l'altro a cominciare. Come i bambini prepotenti che litigano, gli israeliani danno sempre la colpa all'altro. Essi si comportano come i bambini viziati: frignano, strillano, si agitano ed il papà (gli USA) dà sempre ragione a loro. Riprendendo Piaget, il bambino viziato, sotto molti aspetti, è "impermeabile all'esperienza". Ma chi fa pagare agli altri i suoi errori non è poi tanto scemo. L'ossessione degli israeliani per la sicurezza potrebbe apparire patologica, se non fossero i palestinesi a pagare (o i libanesi, o i siriani, ...).
Ma raramente i bambini viziati crescono bene, e la storia di Israele lo dimostra.
Quando in un conflitto si tende a guardare chi ha cominciato (invece che "chi ha fatto cosa" e per quali motivi) si dà priorità alle logiche del potere rispetto a quelle del diritto.
Il bambino viziato lo sa bene e dice sempre "Ha cominciato lui". Gli stati e gli imperi sono allo stesso modo bravi a trovare un casus belli che dia una giustificazione alla loro aggressione del più debole.
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Immagine pubblica e privata
Il comportamento di Israele analogo ad un bambino viziato non è casuale: le spiegazioni sono estremamente semplici perchè sono rivolte ad un'opinione pubblica lobotomizzata, trattata anch'essa come una massa di bambini (o deficienti, o ritardati, o minorati mentali; il termine "lobotomizzato" rende però bene l'idea di come le masse dei teledipendenti siano diventate incapaci di connettere le informazioni per trarne significati).
A questa immagine pubblica di Israele si affianca un reale comportamento adulto basato su logiche di sterminio dell'avversario. Chi prova poi a criticare l'immagine pubblica bambinesca viene estromesso da tutti i posti di rilevanza mediatica. E il gioco è fatto.


Nubi brune e mutamenti climatici
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di Marco Cedolin
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Troppo spesso quando viene affrontato l’argomento dei mutamenti climatici si percepisce l’impressione che tutta l’attenzione venga erroneamente focalizzata esclusivamente sulle emissioni di anidride carbonica, quasi l’inquinamento da CO2 fosse l’unico responsabile degli stravolgimenti climatici con i quali siamo e saremo sempre più costretti a confrontarci.Oltre a quantitativi abnormi di anidride carbonica, la “megamacchina” che chiamiamo progresso produce invece un’enorme sequela di veleni che in varia misura contribuiscono, sia direttamente sia indirettamente, ad aggravare i mutamenti climatici attualmente in atto.
Molto interessanti a questo riguardo sono i risultati di uno studio condotto nell’ambito del programma per l’ambiente dell’ONU, concernenti gli effetti delle nubi brune atmosferiche.Le nubi brune, presenti secondo lo studio soprattutto in Asia, ma anche in Nord America ed in Europa, Pianura Padana compresa, sono sostanzialmente enormi nuvole costituite dalla combustione delle energie fossili, che oscurano il cielo delle grandi metropoli per lunghi periodi dell’anno. Queste nubi, generate dall’attività umana, sono cariche di particolato e particelle inquinanti di ogni tipo e arrivano in alcuni casi a raggiungere i 3 km di spessore, determinando una serie di conseguenze estremamente rilevanti a livello climatico.
Secondo i risultati dello studio, tali nubi oltre ad avere un impatto pesante sulla qualità dell’aria e sull’agricoltura, aumentando i rischi sanitari ed alimentari per 3 miliardi di persone nel mondo, costituiscono una sorta di scudo che riflette la luce solare, diminuendo la quantità delle piogge e contribuendo al riscaldamento dell’atmosfera, mentre al contrario il suolo tende a raffreddarsi in virtù del diminuito irraggiamento solare.
In alcune grandi metropoli come Pechino, Shanghai e New Delhi dal 1970 ad oggi si è riscontrato un calo della luminosità superiore al 20%. Nel sud est asiatico dal 1950 ad oggi le precipitazioni monsoniche sono diminuite del 7%, mentre risultano raddoppiati i fenomeni meteorologici estremi. Più in generale la presenza delle nubi brune sembra incidere pesantemente determinando anomali mutamenti delle temperature e del regime delle precipitazioni che sommati alle conseguenze dell’accumulo di CO2 in atmosfera saranno in grado di produrre effetti potenzialmente catastrofici, la cui portata allo stato attuale delle ricerche non risulta ancora definita.
Se le dinamiche d’interazione fra i vari elementi che ingenerano i mutamenti climatici non sono ancora state sviscerate nella loro interezza (ammesso che possano esserlo in futuro) appare invece di una chiarezza adamantina l’individuazione dell’unica strada che può consentirci di rimediare (nel caso ci sia ancora il tempo per farlo) alla catastrofe imminente. Diminuire in maniera corposa l’incidenza della tecnosfera sulla biosfera (anziché incrementarla come stiamo continuando a fare), tentando di recuperare, almeno in parte, gli equilibri che abbiamo perduto e stiamo perdendo e imponendoci di preservare almeno quella parte di ambiente che non è ancora stato devastato in maniera irreversibile.
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mercoledì 7 gennaio 2009

POST DI VACCA, BERTANI, BINAGHI
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Barbarie israeliana
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di Nicola Vacca
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Israele ha iniziato una guerra sulla Striscia di Gaza per colpire le basi di Hamas. Il bombardamento della scuola dell’Onu, nel quale hanno perso la vita bambini innocenti, evidentemente smentisce le intenzioni del governo Olmert. L’operazione Piombo Fuso sta assumendo le caratteristiche di un vero e proprio sterminio di massa.
La carneficina nella scuola dei profughi è soltanto l’inizio di una guerra tragica che gli israeliani sono fermamente convinti di portare a termine. Le operazioni militari dell’esercito di Gerusalemme hanno danneggiato solo in parte Hamas.Continua a morire gente innocente. La cruenta offensiva israeliana non ha alcun rispetto per la vita di intere famiglie che sono intrappolate nella Striscia di Gaza.
Le cannonate israeliane continueranno a sterminare la popolazione inerme. Saranno bombardate altre scuole, moriranno altri bambini innocenti. La vendetta israeliana si placherà non quando Hamas sarà neutralizzata, ma soltanto quando l’ultimo innocente avrà pagato con la vita.
Nicola Vacca (tratto da http://nicolavacca.splinder.com/ )

L’incapacità di vivere dimenticando i fili spinati
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di Carlo Bertani
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“E cosa sta facendo la nostra gente in Palestina? Erano servi nelle terre della Diaspora e d'improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un'inclinazione al dispotismo. Essi trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose.”
(Ahad Ha'am, Zionism: the Dream and the Reality, Harper and Row, New York 1974).
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In questi giorni di sgomento e rabbia, incredulità ed angoscia, stiamo osservando l’ennesimo capitolo dell’infinito tormento palestinese, che già sappiamo non sortirà effetto alcuno, né fra i palestinesi – che si ritroveranno uniti per qualche tempo, per poi ricominciare l’eterno dissidio interno – né per gli israeliani, i quali non potranno rimanere a Gaza – sarebbe come riportare il morto in casa – e s’accontenteranno di qualche anelito di vittoria: vera, presunta, addomesticata dai media, velleitaria e che provocherà altri dissidi interni.
La partita, più che sul campo di battaglia, si gioca sulla capacità di resistenza politica nel tempo il quale – già sanno entrambi i contendenti – non potrà superare le poche settimane, come tutte le guerre degli ultimi anni. Oramai, si fanno le guerre nei periodi di vacanza – il Libano durante le vacanze estive, nel 2006, idem la Georgia nel 2008 – ed oggi sotto Natale: come le “importanti” riforme della politica italiana, che arrivano sempre a Luglio.
Oramai, per bastonare le popolazioni sempre più disilluse, bisogna contare – in qualsiasi modo – sulla massima “distrazione” degli altri. Perché, nel caso della Palestina, si tratta di un vero e proprio vulnus al diritto internazionale.
La pantomima internazionale prevedeva da tempo questo attacco – perché la diplomazia israeliana non si fida della nuova amministrazione americana (staremo poi a vedere…) – ed aveva bisogno del “classico” veto all’ONU. Che, il “glorioso” Bush, non ha fatto certo mancare.
Che si tratti di una colossale presa in giro del diritto internazionale, ci vuole poco a capirlo, anche per chi non ricorda le risoluzioni dell’ONU in materia.
Gran parte della responsabilità ricade sulla dirigenza israeliana, inutile negarlo, perché non ha rispettato le risoluzioni
[1] n. 242 del 1967:
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Ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto.
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e n. 338 del 1973:
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2 - Richiama le parti in causa affinché immediatamente dopo il cessate il fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, in tutti i suoi punti.
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Lo status di “territori occupati” quasi non esiste nel diritto internazionale, giacché può riferirsi soltanto alle zone occupate dopo la fine delle ostilità, ossia nel lasso di tempo che intercorre fra un armistizio ed un trattato di pace. Che non può, ovviamente, durare decenni: in epoca contemporanea, le più lunghe occupazioni “temporanee” furono quelle della Saar, dal 1918 al 1935 e dal 1945 al 1957, entrambe però codificate nei trattati di pace e risolte con accordi franco-tedeschi.
Lo status giuridico dei territori palestinesi è un vero e proprio vulnus del diritto internazionale, e questo dovrebbero saperlo anche i politici italiani che blaterano sempre le stesse facezie in TV, ad ogni massacro. Sotto, c’è ben altro.
Immaginiamo cosa sarebbe successo se le truppe russe – scese in campo solo dopo l’attacco georgiano, è bene ricordarlo – avessero bombardato Tblisi – chiese, scuole ed ospedali compresi – facendo 500 morti e 3000 feriti. Immaginiamo cosa sarebbe capitato all’ONU. In Palestina, invece, è solo “difesa”.
Il progetto immaginato dagli israeliani per i “territori occupati” considera gli stessi come un facile serbatoio di manodopera a basso costo: più sono poveri, meno potremo pagarli. Così – anche se ultimamente sono state aperte le porte ad una modesta immigrazione orientale – i palestinesi sono stati e sono la forza lavoro per le mansioni di basso livello in Israele. La questione etnica, sempre rimarcata dalla destra israeliana integralista, non vede di buon occhio la presenza stabile in Israele d’altre comunità religiose: hanno dovuto accettare la presenza dei pochi “arabi israeliani”, ma l’hanno accettato obtorto collo. Figuriamoci se arrivassero schiere d’induisti, buddisti, taoisti, ecc.
Di conseguenza, la soluzione più vantaggiosa per Israele è mantenere una sorta di grande prigione a cielo aperto – della quale controllano tutti i rubinetti – nella quale le condizioni di vita sono inenarrabili e, ad ogni nuova incursione israeliana, più giovani passano nelle file di Hamas. Chi dà più retta alla corrotta ed imbelle dirigenza di Fatah? Ovvio che, presa coscienza del proprio status di prigionieri, si ribellano lanciando razzi: così non sarebbe se non si sentissero ostaggi degli israeliani. E, ad ogni nuovo attacco, Hamas si compatta all’interno e s’espande fra la popolazione. L’attacco israeliano, dunque, sortirà proprio l’effetto contrario rispetto a quanto viene comunicato dalle schiere di giornalisti “embedded”.
Viene da chiedersi, però, la ragione che spinge gli israeliani su questa strada, poiché – a fronte di qualche vantaggio economico nello sfruttamento dei palestinesi – ci sono spese militari che “corrono” da decenni, ed una situazione finanziaria che non è proprio rosea. Alcuni anni fa, le banche israeliane rifiutarono i mutui ai Comuni, poiché ritenuti inaffidabili: parola di banchieri ebrei.
La strana “convenienza” economica di mantenere per decenni uno stato di guerra permanente con tutti (o quasi) i suoi vicini è però accettata dalla maggioranza della popolazione, e questo è un dato che non possiamo passare sotto silenzio.
La percezione israeliana del mondo arabo nasce – è impossibile negarlo – dalla pretesa superiorità che nasce dalla Bibbia ebraica, ossia dal Pentateuco: tanti sono i richiami al “popolo eletto”, ed altrettanti ci credono fermamente.
Paradossalmente, pur essendo gli israeliani per la gran parte discendenti di famiglie europee, sembrano completamente stagni nei confronti dell’Illuminismo, fenomeno che riuscì a portare a termine – grazie all’importanza suprema assegnata alla Ragione illuminista – il processo iniziato nel XVI secolo con la Pace di Augusta, quel cuius regio, eius religio che – nelle intenzioni dell’epoca – doveva porre fine alle dispute religiose.
E’ stranissimo che un popolo formatosi in Europa e negli USA – e che tanto ha dato alle Scienze esatte – si mostri così refrattario nei confronti di principi universalmente accettati, quali il rispetto dell’altrui credo e cultura. I musulmani hanno mostrato e mostrano maggior propensione al rispetto, più dei cattolici, e l’Andalusia dei Mori è ancora là a testimoniarlo. Gli israeliani disprezzano gli arabi e la loro cultura – rispetto alla quale tutti abbiamo il diritto d’affermare che non accetteremmo mai per noi – ma che non possiamo più permetterci, dopo essere stati colonizzatori, di disprezzare.
I veri pasticci sono venuti dopo, ed hanno avuto come attori non i musulmani – i quali, all’epoca, erano colonizzati – ma le cancellerie europee con le promesse d’indipendenza di Lawrence (in cambio dell’appoggio contro i Turchi), smentite e tradite dal successivo trattato di Sèvres del 1920.
Nonostante le rassicurazioni di Balfour, dopo la Seconda Guerra Mondiale la Palestina si trasformò in una terra di nessuno, dove la ragione del più forte – perché più organizzato – contava su personaggi come Menachem Begin, il quale aveva la pessima abitudine di “dimenticare” bombe a mano nelle case degli arabi.
La sua “carriera” è una striscia di sangue, ed oggi parlano di “terrorismo”. Da Wikipedia:
Il 25 aprile 1946 guida personalmente un commando che attacca un garage inglese uccidendone tutto il personale addetto.
Il 22 luglio 1946 è alla testa del gruppo di terroristi che fa esplodere l'Hotel King David di Gerusalemme, provocando la morte di 97 persone, in gran parte ammalati, feriti, medici e infermiere (l'hotel era adibito a ospedale militare).
Il 1 marzo 1947 uccide due ufficiali britannici in un circolo militare inglese.
Il 18 aprile uccide un passante con una bomba, in un'azione intimidatoria terrorista. Due giorni dopo lancia un'altra bomba contro un ospedale della Croce Rossa Internazionale di Gerusalemme.
Il 12 luglio 1947, con alcuni compagni, rapisce due sottufficiali britannici appena ventenni, Mervyn Paice e Clifford Martin: li tortura a lungo e li impicca poi con fil di ferro. Ai due cadaveri lega una bomba che ferisce i soccorritori sopraggiunti. (tecnica usata anche dai finlandesi con i prigionieri russi N. d. A.).
Tre mesi dopo dirige una rapina ad una succursale della Barclay's Bank e, nel fuggire col bottino, uccide quattro agenti di servizio.
Nel febbraio 1948 dirige un gruppo di terroristi in un attacco contro un ospedale britannico di Gerusalemme: risultato, tre militari feriti vengono assassinati nei loro letti.
Il 10 aprile 1948, il più odioso e più noto dei crimini delle lotte in Palestina: Begin mette a punto e dirige personalmente l'azione di rappresaglia contro il villaggio arabo di Deir Yassin, con l'uccisione a sangue freddo di tutti i suoi abitanti, compresi i vecchi, gli infermi e i bambini in fasce (il numero delle vittime varia, dal un minimo di oltre un centinaio di persone a un massimo di 254).
Costui è stato il fondatore del Likud, il partito di Sharon e Netanyahu. I primi ad usare l’arma del terrorismo furono proprio gli israeliani, che poi pensarono bene di promuovere Primo Ministro un simile pendaglio da forca.
Tutto sembra nascere da quel vasto fenomeno criminale europeo – perché non vi parteciparono solo tedeschi, bensì polacchi, ucraini, francesi, italiani, croati… – che fu la pietra angolare che segnò Israele: la Shoà. C’era da aspettarselo: a quel tempo, era normale che così fosse.
La perfidia assai strana è che coloro i quali, per anni, condussero le tradotte al macello non pagarono lo scotto: perché, ad esempio, la Germania non fu obbligata a cedere una parte del suo territorio per lo stato ebraico?
No: in pieno stile coloniale, l’assassinio di milioni d’ebrei (e non solo, è bene ricordarlo) fu pagato dai palestinesi, che c’entravano come i cavoli a merenda. E non stiamo a raccontare storie di Gran Muftì “nazisti” poiché, per contrappasso, potremmo ricordare chi – finanziariamente, per due guerre mondiali – sorresse lo sforzo bellico britannico.
Terminata la guerra, sarebbe stato meglio onorare chi morì nei lager e rendere così giustizia a tutti i perseguitati del tempo: cercando “un altro Egitto”, direbbe de Gregori.
Il movimento dei kibbutzim ci provò, e suscitò scandalo – in quegli anni – l’educazione collettiva dei giovani, la minor importanza della famiglia, ma questa è un’altra storia, che sarebbe bello raccontare se i kibbutz, oggi, non fossero diventati degli avamposti di Tzahal.
Ciò che avvenne in Israele, soprattutto dopo la guerra di Yom Kippur, fu la montante importanza di una nuova destra, che nulla aveva a che fare con la tradizione conservatrice.
La Shoà, da evento storico – patito sulla propria pelle, ma pur sempre evento storico – fu trasformato in fatto quasi religioso: nacque la retorica della Shoà, che ebbe in Yad Yashem il suo tempio, il nuovo tempio di Salomone.
Intere generazioni d’israeliani sono state cresciute in questa retorica, e l’avvento dei media planetari ha espanso ai quattro venti l’assioma che – un popolo così provato – avesse diritto ad un eterno risarcimento, a scapito di chiunque.
Il tentativo di Rabin – condurre Israele su una strada europea, perché anche in Europa avremmo rivalse e “crediti” a bizzeffe da esigere, la storia europea è un solo, terribile groviglio di massacri e ritorsioni – fallì perché andò a cozzare contro un muro, quello creato da anni di retorica: l’ebreo è sicuro solo in Israele, fuori dai suoi confini sono sempre all’erta le forze del male, pronte a distruggerlo. Salvo, poi, constatare che gli ebrei americani ed italiani se la passano molto meglio di quelli israeliani; a microfono spento, vi diranno: “fossi matto ad andare laggiù, col rischio di saltare per aria o di precipitare in una guerra l’anno”.

Le questioni geopolitiche contano, non lo nascondiamo, ma questi sono i sentimenti che la popolazione israeliana avverte: semplicemente, perché da anni viene bombardata su opposti fronti. Da una lato, quello biblico – con tutte le citazioni di fosche profezie, sul popolo eletto, ecc – e dall’altro per il ricordo della Shoà, la quale esige d’essere sempre all’erta, pronti a rispondere a qualsiasi attacco, costi quel che costi.
In definitiva, Israele non ha mai superato il trauma della Shoà, anche se quelli che si salvarono sono oramai quasi tutti andati per età: sono le generazioni successive che l’hanno trasformata nel cespite per qualsiasi avventura militare.
Lo Stato Maggiore di Tel Aviv sa benissimo che non potrà occupare Gaza (e dopo? quanti attentati?), e nemmeno sperare d’appiattire ai suoi voleri la popolazione palestinese, dopo tanti massacri e un così diffuso dolore. Una seconda Shoà.
“Finché c’è guerra c’è speranza” – titolo di un film di Sordi – sembra calcare alla perfezione per una dirigenza politica che ha saputo creare da una tragedia un mostro, la ripetizione eterna del ricordo. Guai a noi, se dovessimo serbare memoria e rancore per le guerre di religione o per le bombe incendiarie degli anglo-americani. Non ne usciremmo più: la Jugoslavia ne sa qualcosa.
La guerra in Jugoslavia fu generata da complessi avvenimenti che riguardarono soprattutto la divisione del debito estero fra le repubbliche federate, ma la gran parte delle genti – gli jugoslavi stessi – poco trassero, per odiarsi, dalle decisioni del Fondo Monetario Internazionale.
Ciò che alimentò la fornace fu il ricordo, l’imprinting lasciato/lanciato nelle generazioni, come ha magistralmente spiegato – più con il sogno felliniano che con le parole – Kusturica in Underground. Fantasmi del passato ripresero forma sorgendo da abissi che si pensavano dimenticati: le due divisioni delle Waffen SS islamiche, Handsar e Kama, tornarono a vivere intorno a Sarajevo, come la Skandenberg albanese, divenuta UCK. E poi cetnici nazionalisti della destra di Belgrado, partizan che combattevano per l’eterna causa serba, ustascia che sparavano nel nome della purezza etnico/religiosa croata.
Un coacervo di miasmi senza più reale valenza – nel senso del tempo che le espresse, la Seconda Guerra Mondiale, con le sue ideologie, i suoi nazionalismi ed i calcoli politico/strategici degli stati maggiori – nutrì per anni le gelide notti sui monti della Bosnia, sorresse fino all’ultimo respiro le battaglie in strada, fornì abbondanti giustificazioni per i massacri d’innocenti.
C’è una soluzione, al perverso e raccapricciante alimentare il ricordo per meri scopi di bottega?
Impossibile, se non mutano le premesse.
L’alternativa?
Israele fu per molti anni alleato del Sudafrica dell’apartheid, e la “teoria” dei “territori occupati” sa tanto di “Bantustan”: se non basta, rimangono a testimoniarlo le molte collaborazioni in campo militare, anche quando l’embargo internazionale contro Pretoria non le avrebbe consentite (i missili Gabriel, ad esempio, che armarono le motovedette d’entrambi i Paesi).
Il Sudafrica ha saputo uscire dal suo cul de sac con gran coraggio e lungimiranza: oggi non è certo tranquillo come un cantone svizzero, ma non fa parlare di sé – per massacri – almeno una volta l’anno.
Quella sudafricana è stata un’esperienza creata dal dialogo e dalla reciproca fiducia: riconoscimento che avvenne sia dalla parte dei neri sia da quella boera. Non dimentichiamolo. Eppure, fu un azzardo che pagò, eccome.
Sull’altro piatto della bilancia, i bianchi sudafricani compresero che la dinamica demografica non li favoriva: non fu soltanto spirito filantropico, ma anche pragmatismo. Che, in ogni modo, funzionò, e potrebbe funzionare anche in Palestina – perché le dinamiche demografiche sono le stesse – se venisse meno l’assurdo principio di uno Stato basato su un’identità etnica e religiosa (peraltro, molto difficile da identificare).
Ci chiediamo se, tramontata ogni ipotesi d’avere due stati che vivono in pace separati, non sia da prendere in considerazione l’ipotesi più semplice, che qualsiasi Stato veramente democratico e moderno dovrebbe sostenere.
Quella di un solo Stato, con pari diritti per tutti e democrazia parlamentare: il sistema meno imperfetto che conosciamo, con tutti i suoi difetti. Una modesta ma concreta base di partenza.
Che ci sarebbe di strano? Non dovrebbe essere la comune prassi di uno Stato che si professa democratico? Non sarebbe una buona occasione anche per i palestinesi, accusati d’essere “refrattari” alla democrazia? Cosa spiazzerebbe di più le leadership integraliste (d’entrambe le parti), bombe e razzi o una proposta che sa di sfida per la democrazia?
L’ipotesi è meno assurda di quel che si pensi, se si riflette sulla alternative.
Israele non potrà mai vincere contro i suoi vicini: sono troppi, e la demografia li avvantaggia. Oramai, i flussi migratori verso Israele sono cessati da tempo.
Può solo perdere o “pareggiare” – mi si passi il paragone calcistico – ma questo “pareggio” è la tragedia alla quale assistiamo, che oggi avvelena di dolore e di rabbia i palestinesi e domani, ad operazione conclusa, ci dirà quante famiglie israeliane piangeranno un loro figlio.
Il sogno della “Grande Israele” è tramontato con il ritiro dal Libano e la mezza sconfitta del 2006: perché continuare in questa assurda tragedia?
Nessun morto nella Shoà ne trarrà vantaggio, e nessun israeliano potrà mai sperare di giungere ad un così completo dominio da scapolare le sue paure ancestrali. Nessun popolo eletto, nessun popolo massacrato.
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Carlo Bertani

(tratto da www.carlobertani.it http://carlobertani.blogspot.com/ )
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[1] Il testo completo delle risoluzioni è reperibile in “Libano 2006: il peggiore dei deja vu”, dello stesso autore, facilmente reperibile sul Web.

Pensieri e parole (1)
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"Davanti al guru fatti canguro"

Redenzione senza conversione: un mito tecnicizzato
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di Valter Binaghi
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La situazione storica in cui ci troviamo oggi in occidente presenta agli occhi dei più i caratteri dell’aberrazione diffusa, cioè di un ordine socio-economico insoddisfacente ma di cui nessuno sembra tirare le fila, di una cultura piena di miti degradanti a cui i soggetti sembrano incapaci di resistere, di una solitudine dell’individuo nella folla che le isteriche esibizioni dei singoli non fanno che accentuare. In questo contesto, il bisogno vero e profondo che l’uomo manifesta è quello della redenzione, ed è qui che cominceranno il loro lavoro il pedagogo, cioè chi vuole aiutare l’uomo a ritrovare sè stesso, ma purtroppo anche il demagogo, cioè chi vuole manipolarlo ed asservirlo.
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La redenzione e le sue figure storiche
Lonergan definisce la redenzione come “una rottura con il passato, con la manomorta delle sue istituzioni, le mentalità che ha prodotto, i risenti­menti e gli odi di cui esso è la spiegazione”(1)
Mircea Eliade(2) ha mostrato efficacemente come le orge connesse ai rituali preistorici della fertilità, ai culti dionisiaci o ai Saturnalia romani, equivalessero ad una sorta di fuga dal tempo storico, ma anche ad una periodica rigenerazione del cosmo sociale, che ha bisogno ogni tanto di un rimescolamento di carte, il cui carattere rituale garantisce però la continuità con l’ordine tradizionale. E’ facile dimostrare come un atteggiamento del genere sopravviva in età storica in feste come il Carnevale.
Nell’Antico Testamento la redenzione è indisgiungibile dall’immagine della “Nuova Terra”, sia nel caso di Abramo, il padre della fede nel vero Dio, sia nell’Esodo di Israele dall’Egitto che rappresenta precisamente l’uscita dalla schiavitù del peccato. Sappiamo che le scoperte geografiche ebbero finanziatori interessati, ma anche che Cristoforo Colombo era convinto di trovare l’Eden al di là dell’Oceano. Del pari, i Padri Pellegrini sbarcarono sulla costa atlantica dei futuri Stati Uniti d’America fuggendo da una società divenuta ostile e impraticabile, e portando con sè il sogno biblico della Terra Promessa (e sappiamo quanto il fondamento religioso di questa epopea civile abbia segnato profondamente la storia degli USA). La letteratura politica del Rinascimento era già stata del resto potentemente condizionata da questa immagine della “Nuova Terra”, se pensiamo ad opere come Utopia di Thomas More, La città del sole di Tommaso Campanella o La nuova Atlantide di Francesco Bacone. Infine, l’escatologia ebraica è un elemento importante a fondamento del marxismo rivoluzionario, e in generale è difficile separare i movimenti rivoluzionari dal messianismo, come sapeva bene Ernst Bloch.
Il Cristianesimo ha visto in Gesù il Redentore dell’umanità, in un modo ancora diverso: “Que­sta redenzione non fu quello che si aspettava: una trasformazione escatologica di questo mondo, una distruzione totale degli ingiusti ed un millennio di pace e di prosperità per i giusti. La redenzione in Cristo Gesù non cambia il fatto fondamentale del peccato che continua a portare alla sofferenza e alla morte. Però, la sofferenza e la morte che derivano dal peccato ricevono in Cristo Gesù un nuo­vo significato. Essi non sono più il triste, doloroso termine del differenziale del peccato, ma anche il mezzo per la trasfigurazione e la resurrezione”(3). Egli è colui che, avendo vinto il mondo ed essendo risorto dai morti, conduce l’uomo alla pienezza della vita spirituale, non rinnovando il suo tempo o la sua patria ma il suo stesso essere. Questo ha un valore non solo personale, ma è anche un rimedio al peccato come reazione a catena, perpetuazione del disordine sociale: “L’accettazione della sofferenza pone fine, almeno in un punto, alla reazione a catena del peccato che invade completamente una società. Quando tutti cercano di fuggire la sofferenza, quando nessuno l’accetta, il suo peso passa sempre ad un altro”(4).
Dopo Cristo è impossibile pensare seriamente alla redenzione se non nei termini di una conversione personale: ne fa fede la parabola dell’esistenzialismo contemporaneo che, per quanto ateo in molti dei suoi rappresentanti (Heidegger, Sartre) enuclea la differenza tra l’autenticità e l’inautentico separandoli da uno scarto che ha le stesse caratteristiche della conversione spirituale: un mutamento che riguarda non le condizioni ambientali dell’uomo, ma la qualità della sua libertà.
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La redenzione senza conversione: miti tecnicizzati
E’ evidente che le varie forme di pseudo-dionisismo (dalla discoteca al rave), con il contorno più o meno consequenziale di sostanze psicotrope, restituiscono all’adolescente di oggi il mito tecnicizzato dell’orgia primitiva, con effetti liberatori che durano quanto una sbronza e immensi profitti dell’industria dei divertimenti.
Del pari, l’immagine della “Terra Nuova” vive nelle foto patinate dei mari del sud ma anche dei club Mediterranée, e l’epica del soggiorno esotico ritemprante rappresenta uno dei capitoli di spesa ed investimento emotivo più importanti per l’uomo della civiltà dei consumi, ma questo non potrebbe accadere se il tutto non fosse condito dalla speranza di una catarsi che ovviamente le agenzie turistiche sono ben lungi dal poter garantire.
Infine, al posto del rinnovamento interiore (faticosissimo: si tratta niente meno che abbinare una conversione intellettuale, morale e religiosa), c’è l’offerta di corpi nuovi, scolpiti dal body building o dalla cosmetica rassodante in attesa di più drastici interventi chirurgici, che ormai avvengono ben al di sotto della mezza età. Tempo fa mi sono informato per ragioni “letterarie” e ho saputo da un noto chirurgo estetico milanese che uno dei regali più ambiti per il diciottesimo compleanno delle ninfette lombarde è una taglia in più di seno, gentilmente pagata dalla stessa madre compiaciuta. Sic.
Un gradino appena più su, il racket della pace interiore. Ovvero la mistica new age del saltello che scarica, della meditazione che concentra, del tocco che apre i chakra, permettendo a manager e tagliatori di teste con stipendi di giada di ritornare all’ufficio dopo il soggiorno monastico ritemprati e più efficienti di prima.
Personalmente, quando nel ’77 lasciai “Re Nudo”, trasformato dal direttore in bollettino parrocchiale degli “arancioni” di Rajneesh, col mio amico Gianni De Martino (che già suggeriva: “davanti al guru fatti canguro”) decisi che non avrei affidato la mia anima a tali animatori. I quali, tra parentesi, a quel tempo facevano proseliti tra i delusi della pedagogia rivoluzionaria e gli orfani di Marx. Ma questa è un’altra storia.
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Valter Binaghi
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1) Bernard Lonergan, Dell’educazione, Città Nuova Editrice, pag. 106.
2) Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla.
3) Lonergan, Ivi pag. 108.
4) Ivi pag. 110.

martedì 6 gennaio 2009

Malgrado la situazione a Gaza peggiori di ora in ora, oggi, in quanto "Festa della Befana", "stacchiamo" proponendo una riflessione di carattere diverso, postata da Antonio Saccoccio.
Domani, invece, torneremo su Gaza con un intervento di Carlo Bertani
(C.G.)
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Prospettive netfuturiste (2)

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Clownterapia: la terapia del sorriso tra scienza e arte


di Antonio Saccoccio.


Apprendiamo con piacere che il governo italiano ha stanziato finalmente dei fondi per la diffusione della “clownterapia” (“terapia del sorriso” o anche “comico terapia”) nei nostri ospedali. Ci auguriamo che questa non sia una mossa isolata, ma che finalmente si pensi a dare dignità umana alle corsie ospedaliere. I nostri ospedali sono troppo spesso dei lager. L’atmosfera che si respira in corsia è pesantissima, opprimente e deprimente. Basta avere un minimo di sensibilità per comprendere che un malato ha bisogno di un ambiente sereno e allegro per poter convivere con la sofferenza della propria condizione. E invece nei nostri ospedali si muore prima moralmente, e poi fisicamente. Oggi possiamo lodare il lavoro avanguardistico di Hunter "Patch Adams, di Norman Cousins, di tutta la gelotologia e la psiconeuroimmunologia. Oggi i loro studi sono ormai riconosciuti come fondamentali, con buona pace dei deprimenti ambienti medici tradizionali. Il sorriso, la risata aiutano in modo decisivo il malato: è dimostrato scientificamente e oggi persino i politici italiani ne prendono atto. Ma vogliamo andare oltre la cronaca e la scienza, perché c’è qualcun altro che ebbe un’intuizione simile ed è un personaggio a noi caro: Aldo Palazzeschi. L’ottimismo istintivo e/o volontaristico che caratterizzò il futurismo, e oggi caratterizza il netfuturismo, deve fare inevitabilmente i conti con lo spettro della sofferenza e soprattutto della malattia. Inutile dire che le personalità più complesse del futurismo (Marinetti, Palazzeschi, Papini) avevano un approccio differente anche nei confronti del dolore e della morte. Anche oggi d’altra parte le sensibilità umane dei netfuturisti presentano sfumature diversificate. Ma al di là delle sfumature, la sensibilità futurista è ovviamente attentissima alla questione del dolore ed è per questo che l’ottimismo diventa per noi netfuturisti una categoria centrale (lo si può vedere nel nostro manifesto generale), e non un sentimento ingenuo e infantile. Ma veniamo all’intuizione di Palazzeschi. Il 15 gennaio del 1914 appariva su Lacerba uno dei manifesti futuristi più bizzarri e sconvolgenti: Il controdolore di Aldo Palazzeschi. Un testo piuttosto lungo, che proponeva una visione del mondo che ribaltava i canoni contemporanei. Un testo esplosivo in cui si potevano leggere frasi come la seguente: “L'uomo che attraverserà coraggiosamente il dolore umano godrà dello spettacolo divino del suo Dio”. Ma è nei punti programmatici che il poeta parla precisamente degli ospedali.


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"Trasformare gli ospedali in ritrovi divertenti, mediante five o' clock thea esilarantissimi, café-chantants, clowns. Imporre agli ammalati delle fogge comiche, truccarli come attori, per suscitare fra loro una continua gaiezza. I visitatori non potranno entrare nei palchetti delle corsie se non dopo esser passati per un apposito istituto di laidezza e di schifo, nel quale si orneranno di enormi nasi foruncolosi, di finte bende, ecc. ecc."
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Come si può vedere, l’artista spesso vede quello che lo scienziato ancora non riesce a dimostrare. Oggi che l’arte e la scienza sono ancora più vicine (almeno in ambienti d’avanguardia), il netfuturismo non può che augurarsi un progressivo avvicinamento delle due categorie, troppo spesso ritenute antitetiche. Tutto ciò non potrà che portare ad un decisivo progresso sia nell’uno che nell’altro campo. Anche a partire dalle terapie per affrontare il dolore. La terapia del sorriso è oggi impiegata soprattutto in ambito pediatrico, ma noi siamo pronti a scommettere sulla sua efficacia in senso più generale. Ridere è un'arte, vincere il dolore è un'arte ancora più grande.


“Venite! Venite! Nuovi eroi, nuovi genii della risata, sbucate nelle nostre braccia che vi attendono, fra le nostre bocche che ridono ridono ridono, fuori dalla macchia pungente del dolore umano”.


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Antonio Saccoccio

(tratto da http://liberidallaforma.blogspot.com/2009/01/clownterapia-la-terapia-del-sorriso-tra.html )

lunedì 5 gennaio 2009


Cortei pro Palestina in Italia. Dimostranti bruciano una bandiera americana (http://www.gazzettino.it/fotogallery.php?id=11583 )

. SPECIALE: IL FALO' DELLE BANDIERE

POST DI CLOROALCLERO E CARLO GAMBESCIA


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L’inaccettabile ipocrisia delle bandiere bruciate
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di Barbara (Cloalclero)
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Di fronte al conflitto che vede Israele opposta ad una regione sovrappopolata, disarmata e affamata da due anni di embargo e di vessazioni, piu’ delle censure massmediatiche effetuate dai “pagliara” di turno, quel che mi fa piu’ schifo e che esprime in modo netto e inequivocabile la bassezza politica e morale della classe politica che purtroppo attanaglia con le sue azioni di dirigenza il nostro paese, sono le dichiarazioni a proposito delle fatidiche bandiere bruciate.
Già all’epoca della fiera del libro di Torino, che da manifestazione culturale quale dovrebe essere, è stata trasformata in una penosa kermesse propagandistica della catastrofe che Israele si apprestava a portare (come ha portato) a fine anno , manifestanti che avevano bruciato vessilli di quell’entità criminale che sgancia bombe sulle scuole e sui reparti pediatrici degli ospedali, erano stati denunciati, segnalati, additati al pubblico ludibrio per quei gesti simbolici (e forse, a spese nostre,processati). Da autorità che non sono in grado neppure di garantire un’informazione obiettiva sul servizio informativo pagato da noi tutti.
Oggi, nella
manifestazione tenutasi in piazza duomo contro il genocidio, qualcun altro ha bruciato bandiere israeliane e americane. Giustamente su qualche sito si intitola l’evento “è piu’ grave bruciare le bandiere che centinaia di persone”
E vediamo la schifosa ipocrisia grondante rabbia per non aver potuto soffocare almeno questo, di dissenso, dei nostri rappresentanti. Ipocrisia e leccaculismo di matrice esemplarmente “bipartisan”
Riccardo De Corato (vicesindaco di Milano, che lamenta che la manfestazione ha rovinato un atteso pomeriggio di shopping per i milanesi): “. Due bandiere di Israele, oltraggiate dalle svastiche, sono state infatti bruciate durante il corteo. Cordoni della polizia sono stati sfondati e decine di vigili sono stati impiegati a causa di intasamenti del traffico cittadino. Tutto con il chiaro intento di creare problemi alla citta’, paralizzando il traffico e rovinando un tranquillo pomeriggio di shopping”. “Metteremo a diposizione di Polizia di Stato e Magistratura le immagine registrate dalle telecamere. Mi auguro pertanto che gli autori di questi gravi fatti vengano cosi’ identificati e denunciati dalla Polizia”
Il presidente del consiglio comunale
Manfredi Palmieri: ““Manifestare bruciando la bandiera israeliana vuol dire essere pro Hamas, per i terroristi, per la distruzione di Israele e per l’annientamento dei suoi cittadini. Milano per questo sente vergogna, anche perche’ avverte Piazza Duomo come violentata: tradizionalmente ribadiamo ogni Capodanno che e’ uno dei luoghi simbolo della Pace, e questa sacralita’ e’ stata violata”.
Sul fronte PD spicca il giudizio del filosionista
Furio Colombo, per il quale si parla di “atti delinquenziali” mica di pizza e fichi: “”Chiunque abbia bruciato quelle bandiere ha compiuto un atto delinquenziale, privo di senso, totalmente inutile per la pace”.
Dalla destra, alla sinistra fino al piu’ vergognoso camaleontismo politico (ma sempre leccando le suole di Israele) questo è il giudizio di
Daniele Capezzone (della strana commistione, almeno per me che ho sempre pensato, sbagliando, che i radicali fossero almeno culturalmente di sinistra) eccolo: “Provo vergogna (…)Chi si rende protagonista di questi atti, dà la misura della propria violenza, dell’intolleranza, dell’adesione culturale al progetto tecnicamente di nuovo nazismo di quanti (penso ad Hamas) vorrebbero distruggere lo Stato di Israele ed eliminare donne e uomini ebrei. Mi auguro che i settori politici coinvolti nella manifestazione vogliano chiedere perdono, e fare pubblica e profonda autocritica per avere preso parte a un evento dove si e’ verificato un simile episodio”
Concludo la carrellata citando un
articolo di Libero che menziona le reazioni di altri due piddini: “Sdegno è stato espresso anche dal vice presidente della Camera, Maurizio Lupi, e da Furio Colombo del Pd, che hanno parlato rispettivamente di “atto da irresponsabili e fanatici ideologici” e di “atto delinquenziale, privo di senso, totalmente inutile per la pace”. D’accordo anche il deputato del Pd Emanuele Fiano: “Chiedere la fine delle ostilità bruciando la bandiera di Israele, vuol dire soltanto volere la distruzione totale del nemico.”E mi chiedo se ’sta gentaglia brutta lecchi le suole senza un minimo di onestà con se stessi o se non ne sappiano effettivamente nulla, come i parlamentari intervistati dalle iene, che non sapevano neanche chi è Nelson Mandela o chi erano Sacco e Vanzetti.
A questo proposito segnalo che il video delle iene piu’ scandaloso (quello dove i senatori non rispondevano neanche sul
participio passato del verbo avere) è stato rimosso.
Siamo al livello che a ’sta gente gli dicono di votare favorevolmente al rifinanziamento della missione in Afghanistan e questi pensano di stare decidendo su un piccolo paese dell’Oceania. Per cui penso che, se tra di loro c’è la moda che “fa bel vedere” fare dichiarazioni scandalizzate per gli stracci bruciati, non si preoccupano certo del fatto che quelli la cui bandiera essi tanto difendono portano ogni giorno ai genitori (quelli che rimangono vivi) decine di cadaveri come
questi.
Io penso che di fronte a questa foto, sapendo che queste cose, ora, mentre leggiamo, stanno ancora succedendo, rende tutti i significati razionali o pseudo-tali poco credibili. Che trecento anni di illuminismo, cento di sfrugugliamenti sui “diritti umani” piroettate nell’inconscio collettivo come un’acquisizione scontata da voci culturali piu o meno accreditate che han parlato di “progresso” , debbano solo stare in silenzio.
E dovrebbero starci guardando i vessilli di questa entità teleologicamente guerrafondaia bruciare finchè si riesce a tenerla in mano. E agli ebrei fintamente “progressisti” come Moni Ovadia che esprime: “Bruciare la bandiera di un popolo e’ come bruciare la nazione. La Bandiera e’ un simbolo” posso solo rispondere con uno slogan “10,100,1000 bandiere bruciate ” Perchè quella nazione “simbolicamente bruciata” sta bruciando realmente i corpi di questi bambini, che erano vivi e che, certo, non buttavano ai giovanottoni pirla dell’IDF niente se non qualche pietra.
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Cloalclero

(tratto da http://www.cloroalclero.com/?p=470 )