lunedì 12 gennaio 2009

Psicologia a scuola? Parliamone
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di Carlo Gambescia
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Quale può essere il ruolo terapeutico della psicologia nella nostra società del rischio e, in particolare, nelle scuole di ogni ordine grado?
Rispondere non è facile soprattutto per l’Italia, dove una recente indagine condotta dall’Ordine Nazionale degli Psicologi in collaborazione con gli Istituti Regionali per la Ricerca Educativa (a disposizione, per sintesi, di chiunque la richieda
carlo.gambescia@gmail.com ), rivela come tuttora manchi una legge per regolare la figura dello psicologo scolastico. Per contro, come mostrano i dati nazionali sull’uso di psicofarmaci, sembra che un italiano su due, ormai vi ricorra abitualmente. Come del resto, pare esista una tendenza ben delineata, di derivazione culturale statunitense, alla somministrazione massiccia di psicofarmaci ai bambini particolarmente vivaci. Per “sedarli”, spesso si legge, e far loro condurre un vita normale…
Il che indica che si preferisce, almeno negli Stati Uniti, alle indagini sulle ragioni del malessere psichico, al lavoro come scuola, svolte dallo psicologo, la somministrazione autoritaria a scopo lenitivo di psicofarmaci da parte di medici e psichiatri.
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La società del rischio
Ma procediamo per ordine. Abbiamo parlato di società del rischio. Perciò dobbiamo definirla.
Oggi l’uomo vive male: incertezza, angoscia e paura segnano la sua condizione in tutti i campi. Sul terreno economico (insicurezza del posto di lavoro), sociale (apprensioni diffuse per l’ incolumità fisica e la protezione dei beni posseduti ), politico ( timori di guerre e attentati terroristici), scientifico (diffidenza verso l’ambiguo linguaggio degli scienziati) e ambientale (paura di catastrofi ecologiche, provocate dall’ intensivo sfruttamento tecnologico della natura).
Alcuni studiosi hanno definito la nostra società come “società del rischio”. Se la società del tardo XIX secolo, o della seconda metà del XX, era una società della sicurezza, basata su alcuni punti fermi (valori borghesi, crescita economica, welfare), Quella del XXI è una società dell’ “insicurezza”, priva di valori stabili.
Ma c’è dell’altro: la società del rischio ha generato individui vulnerabili: uomini, donne, ragazzi, adolescenti e perfino bambini con una particolare disposizione ad essere moralmente feriti, incapaci di difendersi e reagire, e quindi bisognosi di aiuto. Il confuso groviglio di paure sociali ha prodotto personalità deboli: individui, così oppressi dalla vita (o comunque che si ritengono tali), da rifugiarsi in un mondo privato, fatto di microcertezze (piccole abitudini quotidiane: vedere un film, andare a cena al ristorante, fare shopping, un piccolo viaggio, eccetera): un universo privatissimo, dove, come ripete il megafono consumista, si può gode di una vera libertà. Un micromondo “inaccessibile”, allo spaventoso mondo delle “macroincertezze” , di cui si ha ogni giorno eco: basta accendere la televisione e seguire uno dei tanto programmi informativi “urlati”.
Di qui, per vivere in sintonia con una società mediatizzata che sottopone l’individuo a dosi massicce di consumismo e paura, la possibilità di rispondere in due modi: o attraverso l’abuso di psicofarmaci, o, come si dovrebbe, soprattutto per i giovani in età scolare, dove spesso il malessere individuale sfocia in atti di bullismo e/o autolesionistici, con il ricorso al terapeuta. Ma come ricorrervi - ecco il punto della questione - se a scuola non esistono presidi di tipo istituzionale?
E qui ritorniamo alla situazione italiana. E ai dati, molto negativi, della Ricerca svolta in argomento dall’ dall’Ordine Nazionale degli Psicologi in collaborazione con gli Istituti Regionali per la Ricerca Educativa (I.R.R.E.).
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La situazione italiana
In Italia 65.000 psicologi esercitano la professione. Bene, secondo la ricerca la presenza di psicologi scolastici nel sistema educativo italiano è pari a zero. Siamo davanti a una situazione dove a scuola il ruolo dello psicologo non è riconosciuto, non è istituzionalizzato. E dove le attività dello psicologo, sono svolte senza alcuna continuità strutturale. In pratica, l’Italia è l’unico Paese europeo che non ha tuttora attivato nelle scuole un servizio permanente di psicologia.
I psicologi presenti nelle scuole, a titolo occasionale, sono 1.500. E in ogni caso se ne possono stimare non più di 3.000, pari a meno del 5% dei professionisti psicologi che operano in Italia. Un quadro veramente preoccupante.
Psicologi, che potrebbero essere impiegati in numerosi campi. Citiamo dalla Ricerca, riprendendone la terminologia tecnica: si pensi al potenziamento dell’efficacia ed efficienza delle attività formative e didattiche erogate dal sistema regionale scolastico; allo sviluppo organizzativo e della qualità delle condizioni di lavoro e comunitarie entro le istituzioni scolastiche; allo sviluppo dei rapporti scuola-famiglia; alla crescita virtuosa delle relazioni di rete interne al sistema scolastico regionale e tra questo e i soggetti istituzionali e della società civile regionale; alla promozione del benessere psicosociale dell’utenza scolastica e del personale operante entro il sistema scolastico regionale; alla prevenzione primaria e secondaria dei fenomeni di insuccesso formativo, di abbandono, di dispersione, di bullismo, vandalismo; alla prevenzione primaria e secondaria del disagio giovanile e delle forme comportamentali e simboliche attraverso cui si manifesta (stili di vita e comportamenti a rischio, modelli devianti di azione sociale).

Pericoli: dalla società del rischio alla” società terapizzata”
Esiste pertanto un problema di introduzione, istituzionale, e per così dire fisiologica, della figura dello psicologo all’interno del sistema scolastico.
Esiste però anche il rischio opposto. Quello di eccedere in chiave patologica: di peccare per eccesso. Certo, la realtà italiana è ancora lontana da quella americana, dove lo psicologo è molto presente, forse troppo. Anzi, dove addirittura, come alcuni temono - si pensi a certi corrosivi scritti di Christopher Lasch - si rischia la “terapizzazione” totale della società e degli individui, fin da piccoli.
Parliamo del rischio che lo psicologo assuma il ruolo di una specie di soffocante Super Ego, rivolto a seguire passo passo l’individuo, nel quadro delle talvolta tentacolari istituzioni welfariste, consigliandolo, condizionandolo, eccetera, anche negli aspetti più intimi della sua vita sociale: dal sesso, alla famiglia, all’educazione dei figli.
Ma non è questa sicuramente, ripetiamo, la situazione italiana. Comunque sia, si tratta di un pericolo da tenere nel dovuto conto.


La scelta italiana
Per tornare all’Italia, si avverte invece la necessità, come mostra la Ricerca, di un “servizio di psicologia scolastica” - anche qui citiamo - fondato su alcune funzioni riferite alle seguenti “tipologie di attività realizzate in collegamento e collaborazione, fatte salve le rispettive competenze ed autonomie, con altri servizi territoriali, con le Università e le società scientifiche di settore, le strutture e gli uffici del sistema scolastico regionale, le parti interessate: elaborazione di modelli interpretativi, strategie, metodologie e strumenti di intervento (anche attraverso specifiche forme di sperimentazione) nei diversi ambiti di interesse (didattica, organizzazione scolastica, relazioni intra ed interistituzionali)”.
Si tratta insomma di un intervento capace anche di emendarsi nel tempo, evitando così derive eccessivamente “terapizzanti” di tipo americano.
Nella Ricerca si accenna in particolare ai seguenti punti: “a) monitoraggio e analisi quali-quantitativa dei processi e delle dimensioni psicologiche intervenenti come fattori critici o di successo nell’erogazione dei servizi offerti dalle istituzioni scolastiche e nei processi di insegnamento-apprendimento; b)rilevazione della domanda formativa rivolta al sistema scolastico regionale; c)progettazione e realizzazione di iniziative formative rivolte al personale scolastico e agli altri soggetti implicati nel sistema scolastico regionale; d)partecipazione alla progettazione e/o alla valutazione di interventi e sperimentazioni relative ai diversi ambiti di competenza precedentemente richiamati; e) realizzazione di attività finalizzate ad orientare la domanda di competenze ed interventi psicologici delle istituzioni scolastiche”.
Come si può vedere, ripetiamo, siamo davanti a una proposta ampia e organica, alla quale Governo e Parlamento devono dare una riposta politica e legislativa.
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Conclusioni. La ricerca di una terza via
Adriano Segatori, psichiatra-psicoterapeuta, in una bellissima intervista (Dove va l’anima?, a cura di Angela Deganis, Edizioni Settimo Sigillo 2007) ha ricordato la presenza nell’universo della ricerca psicologica teorica e applicata, ma anche nella sua pratica, di due fondamentalismi “apparentemente opposti ma proceduralmente affini”.
Da un lato il modello “cerebroiatrico” volto alla ricerca del “funzionamento minuzioso del cervello … con l’obiettivo di intervenire farmacologicamente per la rapida manutenzione dello stesso, la regolarizzazione dei comportamenti e la rapida rimessa in funzionamento sociale del soggetto interessato”. Dall’altro lato, il procedimento socioiatrico che sottostima e squalifica qualunque necessità di intervento psicologico puntando sulla demagogica rivendicazione di diritti, di libertà di decisione…, senza alcuna sensibilità per i fattori inconsci, le dinamiche psicologiche intrafamiliari, gli stili comunicativi interpersonali”. I primi sono affetti da “panmaterialismo metafisico”, i secondi da “pansociologico meccanicismo”.
Ecco, una buona psicologia sociale, anche estesa al campo scolastico, dovrebbe tenere presente questi due limiti, così ben individuati da Adriano Segatori.
Il che può non essere facile. Soprattutto nel mondo di oggi dove l’individuo pare chiedere al tempo stesso il massimo della libertà e il massimo della protezione dalla società del rischio.
Ma bisogna provare. Occorre, come indica chiaramente la Ricerca qui ricordata, una terza via. E soprattutto coraggio politico.
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Carlo Gambescia

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