lunedì 5 gennaio 2009

Sociologia della "bandiera bruciata"
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di Carlo Gambescia



Vogliamo parlare delle "bandiere bruciate" dal punto di vista di una sociologia dei fenomeni culturali e collettivi ? Magari tentando di andare oltre le pur giusta indignazione morale e politica per quel che sta accadendo nella striscia di Gaza?
Secondo una certa vulgata occidentalista chiunque profani, magari bruciandola, una bandiera nazionale, o al contrario la esibisca troppo, fino a sacralizzarla, peccherebbe di tribalismo: sarebbe una sorta di troglodita. A differenza dell' homo occidentalis, che proprio perché civile e progredito, sfogherebbe il suo "presunto" bisogno di simboli, solo comprando abiti e scarpe griffati.
Di riflesso ogni comportamento, come è accaduto di recente, che si discosti da questa impostazione etnocentrica, viene regolarmente demonizzato.
La vera questione invece è che un fenomeno così complesso, come il simbolismo di una bandiera, non può essere spiegato, degradandolo a una specie di anello concettuale di congiunzione tra la scimmia e l'uomo.
Prendiamo ad esempio un evento collettivo interessante come quello delle bandiere della pace, esposte su molte finestre. Questo fenomeno spiega, come il presunto bisogno tribale di identificazione tra causa e bandiera sia molto forte, anche in ambienti che fanno del dialogo razionale, non solo tra le persone ma addirittura tra i popoli, una ragione filosofica e di vita. Una scelta condivisibile, che tuttavia, qualche volta, e in modo apparentemente inspiegabile, sfocia, anche nelle file pacifiste, in episodi sgradevoli.
Come spiegare perciò la persistenza di certi comportamenti collettivi di tipo simbolico? Bandiera e rituali connessi, non sono fenomeni tribali, ma rinviano a un fondo "animistico", ancora presente e attivo nell'uomo. Un "basso continuo" che consiste nell'innata capacità dell'uomo di considerare tutte le cose, animate da spiriti vitali. E di ritenere il "principio" che le incarna come una specie di forza superiore.
Ad esempio, tra gli abitanti delle isole del Pacifico (stando alla documentazione etnografica), come tra cittadini statunitensi (ma anche tra altri popoli "moderni"), un drappo di stoffa in cima a un bastone indica psicologicamente lo stesso fenomeno: per i primi, è un simbolo per celebrare il compimento delle operazioni di piantagione di tuberi commestibili in una area sacra e di proprietà collettiva; per i secondi è un simbolo per celebrare ad esempio il Quattro di Luglio, il compimento di un processo di indipendenza nazionale, che ha come oggetto un'area altrettanto sacra e di proprietà collettiva: la nazione.
Per i due popoli ogni offesa alla "bandiera" è un'offesa a quel che c'è di più sacro e inviolabile: un territorio condiviso che incarna collettivamente - ecco il fondo animistico - un principio superiore di unità e solidarietà, dotato di forza propria, che si coagula intorno alla bandiera. Va da sé, purtroppo, che sia gli indigeni del Pacifico che gli americani puniscono chiunque profani la bandiera, seguendo, certamente, modalità diverse.
Ma la profanazione rappresenta il rovescio della medaglia: la consacrazione della propria bandiera non esclude, anzi spesso implica la profanazione di quella altrui. Sacralità e profanazione vanno di pari passo. Infatti, solo quel che è ritenuto "sacro" può essere profanato. E purtroppo non sempre c'è accordo sul valore dei rispettivi "principi superiori".
Questo spiega perché, non tanto i pacifisti veri, quanto magari gli strenui difensori di un qualche pseudo-universalismo fondamentalista (a prescindere dal suo colore ideologico), pur battendosi per abolire ogni atto di guerra, finiscano inevitabilmente per bruciare le bandiere altrui: un gesto decisamente contrario a ogni etica pacifista. Ma spesso inevitabile. Dal momento che la sacralizzazione di ogni bandiera: arcobaleno, rossa, nera, e per ipotesi, anche quella papalina, implica automaticamente anche il rischio "antropologico" della profanzione.
Il che non significa che si debba rinunciare a colmare almeno in parte nell'essere umano, attraverso appropriati processi di socializzazione, quella famigerata terra di nessuno tra natura e cultura, di cui si parla fin dalla notte dei tempi. Anche perché il vero pacifista, in genere, è una persona che ha ben interiorizzato i principi in cui crede.
Per ora, basterebbe comprendere, che non è facile per nessuno, "progredito" o meno, rinunciare a levare in alto la propria bandiera, e qualche volta, "abbassare" quella dell'altro.
Il che, visto che vale per tutti, paradossalmente, potrebbe rendere tutti più tolleranti.


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Carlo Gambescia

2 commenti:

Cloroalclero ha detto...

caro Carlo:
qui possiamo esere tolleranti quanto vuoi, fatto sta che l'entità sionista bombarda gente inerme col fosforo e qui ci si indigna per le bandiere bruciate . Che, ti giuro, p una rivendicazione che mi sembra rifletta la stessa sproporzione tra le parti che c'è nell'attuale conflitto.
Se io brucio una bandiera americana, non significa che io sia antiamericana, ma che ripudio quella politica, in quella contingenza. La cultura occidentale mi sembra che possieda contenuti abbastanza disacranti per non considerare assoluto nulla. Neanche questo strumentalmente detestabile gesto.
buona befana
B

CONTRAGORA' . IL CROCEVIA DELLE IDEE: CULTURA, POLITICA, SOCIETA', COMUNITA', ECONOMIA. ha detto...

Cara Barbara,
Prendo atto.
Ma non cercavo alcuna contrapposizione. Il mio post doveva integrare - questa era ed è la mia intenzione - il tuo, su un piano più generale. Tentavo di andare oltre la contingenza politica, pur gravissima, affrontando "onestamente" il rapporto tra uso dei simboli e comportamento politico. Tutto qui.
Buona Befana anche a te,
Carlo