domenica 23 novembre 2008

Troppi giorni di ordinaria follia

di Marco Cedolin


La strage familiare di Verona nella quale un commercialista ha ucciso a pistolettate la propria moglie ed i loro tre figli, prima di rivolgere l’arma verso sé stesso e suicidarsi, riporta l’attenzione verso la tragedia degli omicidi – suicidi all’interno della famiglia, diventati ormai una costante della cronaca nera giornaliera. Tragedia all’interno della quale emergono in maniera drammatica tutte le contraddizioni di una società “malata” che fagocita le menti dei propri figli sull’altare di un fantomatico progresso.
Si vive immersi in una cacofonia di stimoli sensoriali, indotti al solo scopo di aumentare in maniera esponenziale i bisogni materiali dell’individuo, in ossequio alla logica consumistica che per sopravvivere necessita d’innescare sempre nuovi bisogni al soddisfacimento dei quali è assoggettata la felicità di tutti noi. Felicità che non tarda a tramutarsi in insoddisfazione e frustrazione per la stragrande maggioranza delle persone che non posseggono le disponibilità economiche sufficienti per l’acquisto di tutte quelle merci e servizi che (pur non essendolo) vengono percepite come indispensabili. Il consumo, e conseguentemente l’accumulo del denaro che lo consente, sta diventando ogni giorno che passa sempre più l’unico terminale delle ambizioni di individui che sono stati indotti ad accantonare qualsiasi valore morale (onestà, saggezza, integrità, altruismo) ritenuto superfluo, quando non addirittura controproducente al raggiungimento dello scopo.
Il “fare soldi” è diventato lo scopo di vita precipuo, essendo questo obiettivo instillato già nelle menti dei bambini fin dalla tenera età, bimbi che si vuole fin da subito vincenti, competitivi e cinici. L’arricchimento culturale, artistico e intellettuale non viene al contrario tenuto nella minima considerazione, tranne qualora possa venire facilmente monetizzato.
In conseguenza di ciò nei modelli proposti dalla famiglia e dalla scuola, l’imprenditore edile che “si è fatto da sé” ed ha accumulato ville ed auto potenti è la rappresentazione del vincente da imitare, contraltare dell’ottimo violinista o scrittore che non avendo però ottenuto adeguato ritorno economico dal proprio lavoro è stato costretto a vivere negli stenti e risulta pertanto perdente di fronte alla vita.
L’interpretazione dell’esistenza sotto forma di battaglia, dove l’aspirazione all’accrescimento materiale ha fagocitato ogni velleità di crescita interiore, l’abitudine di suddividere le persone in vincenti e perdenti, il senso di competizione che deve accompagnare ogni attimo della giornata, sono tutti elementi che contribuiscono ad aumentare il grado della frustrazione individuale. In ogni competizione infatti accanto ad un vincitore ci saranno molti perdenti e nella nostra società trasformata in una sorta di “gara a fare soldi” tutti coloro (la grande maggioranza) che non saranno riusciti nell’impresa finiranno per percepirsi come inadeguati e disadattati in quanto perdenti in una società dove è obbligatorio vincere.
Ma è proprio nell’ambito della famiglia e degli affetti che l’individuo cresciuto per “competere e basta” mostra tutta la propria inadeguatezza, all’interno di rapporti interpersonali diventati sempre più difficili, pregiudicati come spesso accade dalla mancanza di sensibilità, dalla incapacità patologica di aprirsi agli altri, di dare e ricevere amore in completa gratuità.
L’individuo forgiato per l’unico scopo dell’arricchimento monetario e della competizione, finalizzati a conseguire idilliache “carriere” prodromiche di fantomatica felicità e realizzazione personale, finisce per trovarsi completamente spiazzato di fronte ai propri simili, abituato a considerarli da sempre unicamente nella veste di avversari. Nella creazione di un rapporto di coppia o di amicizia egli finisce infatti per portarsi dietro quella sorta di “arena” che gli è propria, con il contorno di competizione, invidia e sopraffazione che finiranno giocoforza per minare mortalmente in profondità il rapporto stesso.
I ritmi frenetici imposti dalla tecnomacchina e la tendenza sempre più esasperata all’ipercinetismo, quale espediente per non doversi mai soffermare un attimo “a pensare” riducono la nostra vita ad una corsa continua nel nulla delle nostre ambizioni. Manca sempre il tempo. Il tempo per gli affetti, il tempo per noi stessi, il tempo per vivere, il tempo per quella manifestazione d’intelligenza ormai in disuso che è il pensiero. Le nostre esistenze sempre più spesso finiscono per scimmiottare in maniera grottesca i modelli della radio e della TV, dove la fretta imperante, ancorché ingiustificata, alterna notizie urlate senza tirare il fiato a interminabili eternità di orientamenti agli acquisti.
Accade inoltre molto spesso che anche chi è riuscito ad arricchirsi e perciò “a vincere” sia stato costretto a pagare un prezzo comunque inaccettabile per questo suo successo. Accade che alla fine della “battaglia” invece della felicità agognata gli si palesi dinanzi il nulla della propria vita affettiva, l’assoluta mancanza di rapporti veri, un abisso inenarrabile di solitudine.
Proprio l’estrema solitudine interiore è una delle risultanti maggiormente deleterie indotte da un modello di vita ipercompetitivo. L’individuo chiuso ermeticamente nel proprio io non può infatti permettersi di condividere realmente con nessuno il proprio tentativo di abbarbicarsi sempre più in alto nella scala sociale, neppure con le persone che gli stanno accanto, essendo anch’esse potenzialmente elementi della competizione.
Sempre più marcatamente le famiglie si stanno trasformando in un ricettacolo di persone aliene l’una all’altra in quanto perse ciascuna nella propria individualità impermeabile rispetto all’esterno. I mariti, le mogli, i figli ed i genitori, all’interno di nuclei famigliari sempre più atomizzati, hanno modo di rapportarsi fra loro solamente quando la coincidenza dei rispettivi “tempi liberi” lo consente e quasi sempre si tratta di contatti superficiali, poiché in fondo all’animo continuano a rimanere degli estranei. Molto spesso le persone passano più tempo con i colleghi in ufficio o in fabbrica di quanto non ne trascorrano con il proprio partner ed i propri figli.
Ne consegue che quando si ritrovano l’uno di fronte all’altro non riescono a trovare nulla da dirsi, quasi fossero separati fra loro da una sorta di muro invisibile. Si scoprono attori di vite diverse, chiusi all’interno della propria incomunicabilità patologica, incapaci tanto di dare quanto di ricevere.
Tutti questi elementi contribuiscono a creare una società ansiogena ed isterica nella quale la depressione, i raptus di follia, i casi di suicidio e le stragi familiari continuano a crescere in maniera vertiginosa. Ma la causa scatenante che più di ogni altra spesso s’innesca sul retroterra di tante vite che non hanno il tempo di viversi, fino a determinare delle alterazioni comportamentali anche profonde e violente è la “precarietà”.
Precarietà del lavoro, inteso come mezzo per esistere, per essere accettati dagli altri, per avere una dignità, dal momento che un disoccupato nella nostra società finisce per somigliare ad un morto che cammina, invisibile a tutto e a tutti, e proprio il numero dei disoccupati, testimoni silenziosi di quella sconfitta che mette terrore, sta continuando ad aumentare in maniera esponenziale.
Precarietà degli affetti, figlia dell’incomunicabilità e di quella paura atavica della solitudine che da sempre portiamo dentro di noi.
Precarietà di tutto ciò che possediamo o forse semplicemente pensiamo di possedere, precarietà di una vita trasformata in competizione, dove alla fine non vince nessuno e stiamo perdendo tutti la nostra umanità.

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Marco Cedolin

(tratto da http://ilcorrosivo.blogspot.com/ 21-11-2008)



3 commenti:

Cletus ha detto...

Statisticamente, qualcuno opinerà, fatti di questo genere non sono poi cosi frequenti. A darcene questa sensazione è semmai il risalto, o meglio “l’impressione” che destano, grazie al risalto che ottengono, nella cosiddetta opinione pubblica.
Perché impressionano è presto detto. Nel bene o nel male, tutti abbiamo (o abbiamo avuto) una famiglia.
Sgombro il campo da qualsiasi pretesa di sociologismo. Questo episodio, cosi come in passato, quello di Cogne, e altri, risulta ancora più incomprensibile a fronte della relativa “serenità economica” di questa famiglia. Come se scattasse l’equazione: difficoltà economica=maggiore propensione a gesti tanto eclatanti quanto definitivi.
L’arbitrio del padre, di ergersi a giudice ultimo, prima a dare e poi a togliere la vita ai propri figli, viene anch’esso da lontano. Oggi ce l’abbiamo, grazie alla tv, a portata di mano.
Parli di mancanza di sensibilità. Per assurdo, invece credo sia l’eccesso di quest’ultima ad aver armato la mano dello stimato commercialista di Verona.
Una mancanza di sensibilità ti porta ad accettare con tutt’altro aplomb, il fatto che la tua compagna “voglia prendersi una pausa di riflessione”, che il bel giocattolino che hai messo in piedi possa rompersi. In altri termini a potersi dire capaci di ripartire da zero.
La felicità, concordo, non viaggia sulla scala del modello Unico. Ho trovato molta più felicità nelle striminzite cucine di gente che tira la cinghia tutti i giorni, che non nelle sale hobby borghesi arredate con tutti i comfort tecnologici.
Di questa triste storia, ancora una volta, a spaventarmi è l’arbitrio del padre.

Michele Antonelli ha detto...

Post molto interessante.

Io aggiungerei un altro paio di fattori, a quelli analizzati da Marco.

1) L'abolizione di ogni autorità e gerarchia, in famiglia, fa si che chi "porta la soma" e si sobbarca ai sacrifici maggiori, non abbia il rispetto che gli spetterebbe. Ciò può essere fonte di frustrazioni accecanti. Mi sembra fosse San Gregorio Magno che auspicava, nelle aggregazioni umane, l'amore del superiore per quelli che protegge e il rispetto dei sottoposti per il loro superiore. E' anche la complementarità di ruoli che San Paolo auspica tra uomo e donna: il primo ama e protegge, fino a dare la vita; la seconda si sottomette. L'abolizione di questi ruoli è fonte di confusione e disordine, oltre che di una innaturale e malefica competizione.

2) L'abolizione delle orazioni, da sempre "calmanti" a buon mercato, oltre che fonti di ispirazione a compiere opere buone. Da noi, in Abruzzo, c'erano una quantità di "loriche", orazioni di protezione contro gli spiriti maligni (quelli che ora chiamiamo raptus), per il giorno e per la notte. In particolare, la mattina di Natale ognuno doveva recitare cento orazioni che accompagnavano il segno della croce, lunga operazione detta delle "cento cruci", invocando una protezione dal "falso nemico" (il demonio) che doveva durare tutto l'anno. Il tipo di società che risultava da queste pratiche è raccontato molto bene da Mario Polia nel suo libro "Mio padre mi disse".

Cordiali saluti

Michele

CONTRAGORA' . IL CROCEVIA DELLE IDEE: CULTURA, POLITICA, SOCIETA', COMUNITA', ECONOMIA. ha detto...

Ringrazio Cletus e Michele per l'importante contributo da loro offerto alla discussione.
Molto interessante il riferimento "all'arbitrio del padre" che sicuramente potrebbe rappresentare una componente della tragedia di Verona.
Così come sono interessanti le osservazioni di Michele concernenti il pericolo insito in una famiglia ormai priva di figure con ruoli definiti.
Sicuramente si tratta di argomenti molto complessi e proprio per questo altrettanto stimolanti.

Marco