mercoledì 31 dicembre 2008

Apriamo il dibattito sulla questione israelo-palestinese con una appassionata analisi di Marco Cedolin cui segue un appello di Cloroalclero al boicottaggio economico di Israele. La prossima settimana verrà pubblicato un intervento in argomento di Carlo Bertani.
Precisiamo che si tratta di posizioni individuali, comunque interessanti, che tuttavia non riflettono alcuna posizione comune in materia di ContrAgorà.
Blog, come si sottolinea nella dichiarazione collettiva di intenti, che resta però aperto alla libera discussione delle idee più disparate.
(C.G.)
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Piombo fuso
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di Marco Cedolin
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E’ vero che non esiste mai una realtà oggettiva, ma solo tante piccole effimere realtà che mutano in funzione dell’angolazione con la quale osserviamo quello che accade intorno a noi. Lo si comprende bene di fronte all’ennesima strage di uomini, donne e bambini che Israele ha deciso di regalare al popolo palestinese per celebrare la fine dell’anno. Una strage raccontata dai media con distaccata superficialità, quasi in punta di piedi, prestando la massima attenzione a compiacere gli “alleati” di Tel Aviv. Oltre 400 persone già massacrate con l’ausilio di bombe e missili, in attesa che i carri armati israeliani invadano la striscia di Gaza per portare a termine l’operazione “Piombo Fuso” programmata da tempo con l’intento di annientare Hamas e qualunque prospettiva di resistenza palestinese.
Piombo Fuso, a solidificarsi al di sopra delle coscienze d’Occidente, per sigillare qualunque anelito di umanità possa ancora pervadere una società come la nostra che sta perdendo le ultime briciole di coerenza e scivolando in un medioevo dell’anima che trasuda vergogna.
Ci siamo prodigati per preservare la memoria dell’olocausto, ma quale dovrebbe essere lo scopo precipuo della memoria se non quello di far si che simili abomini non si ripetano mai più? Come si può indignarsi rispetto alle atrocità del passato, restando al contempo indifferenti e spesso giustificando quelle che fanno parte del nostro presente?
In Medio Oriente il genocidio continua, anno dopo anno, mese dopo mese ed ha il colore del piombo fuso che annichilisce la gente di Palestina, mentre il resto del mondo volge colpevolmente il proprio sguardo altrove. E’ un genocidio fatto di stragi travestite da operazioni militari, di omicidi mirati, di sopraffazione, di muri invalicabili, di assassini legalizzati, di omertà, della volontà di annientare un popolo insieme con il suo diritto ad esistere, le sue tradizioni e la sua dignità. Un popolo costretto a vivere dentro i campi profughi nella sua stessa terra, un popolo al quale sistematicamente Israele ruba tutto, perfino l’acqua, un popolo di ragazzini dalla gioventù negata, troppo spesso rassegnati a morire a 14 anni lanciando pietre contro un carro armato, poiché consapevoli del fatto che nessuno si prodigherà mai per farli uscire dal ghetto dove sono stati gettati con violenza prima ancora di nascere.
Dalla nostra prospettiva privilegiata di “civili” cittadini della UE che ricordano con sdegno la Shoah, ma ostentano malcelata indifferenza di fronte al martirio del popolo palestinese, la realtà ha i contorni netti del bianco e del nero. Israele è un Paese civile e democratico, costretto riversare piombo fuso sulla striscia di Gaza, come pianificato da tempo, in risposta all’improvviso lancio di razzi Kassam verso il proprio territorio. Hamas è un’organizzazione terroristica, incivile, antidemocratica bensì democraticamente eletta, unica responsabile della strage che si sta consumando.
Il bianco e il nero, quello che è giusto e quello che è sbagliato, le guerre buone e quelle cattive, la consapevolezza di manifestarci in qualità di alfieri della civiltà, depositari della verità che a Capodanno faranno esplodere i propri botti figli del baccanale consumistico - mondano, mentre a Gaza continueranno ad esplodere le bombe. Mentre il popolo palestinese continuerà a morire giorno dopo giorno, relegato dentro la sua prigione, a morire senza ricordo, senza memoria, senza un perché, senza che nulla mai possa intervenire a scalfire le nostre coscienze, inaridite come la terra dura del deserto.
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Marco Cedolin
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di Barbara (Cloroalclero)
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Quando andate al supermercato controllate la provenienza dei prodotti che acquistate. Se il codice a barre riporta il numero 729 non comprateli. C’è la crisi economica: cominciate a fare i tagli su coloro che spendono soldi per sganciare, per esempio, 100 tonnellate di bombe sulla testa di gente inerme in due giorni.

Non c’è possibilità di dialogo con i sionisti (e con chi li sostiene). Nonostante piu’ fonti dicano che quest’ operazione “piombo fuso” che prevede prima l’attacco aereo e poi l’attacco di terra sia stato programmato da mesi e che sia evidentissimo che si tratti di una prova di forza elettorale, i mass media, nessuno escluso, ripetono all’opinione pubblica occidentale che “si tratta di una risposta…allo stillicidio di kassam…con cui i palestinesi…armati da Hamas, che è armata da Hezbollah..che è rifornita di armi dall’Iran” hanno rotto la tregua.
Ci siamo già soffermati sulla costruzione dei
mantra da mass media. Convinzioni granitiche che, come in questo caso, offendono la logica umana di chi in tv e in foto vede povera gente senza un esercito, senza rifugi venir inaspettatamente attaccata da un esercito di proporzioni ultratecnologiche con forze terra-aria decise a fare, come dice Rasho-o-o “Tabula Gaza” . Terra bruciata, come la tecnologia bellica- che un “bell’uomo” come Paolo Guzzanti decanta in sublimi poesie all’insegna della fratellanza e del rispetto umani, dell’educazione e della civiltà (essendone personalmente affascinato)- sa fare.
E quindi noi, utenti di un’Italia messa piuttosto male dal punto di vista del rapporto tra cittadini e “conoscenza della verità” in senso filosofico, non possiamo fare altro che star qui, indignarci (se se ne è conservata la capacità), leggere
qualche pirla che in Rete si spaccia per progressista, ingoiare quella rabbia che sopravviene quando ci si scopre impotenti dinanzi ad un’ingiustizia, tanto piu’ se essa ha un sapore genocida, come in questo caso, e interrogarci sul perchè la fandonia, la mistificazione, la cazzata esplicita, pur nella sua esplicitezza (si dice?), siano entità così vincenti nel mondo contemporaneo…
Leggo Louis Ferdinand Celine, per esempio, “viaggio al termine della notte” dove lui racconta come, trascinato dall’entusiasmo di un allegro pomeriggio si è fatto volontario nella prima guerra mondiale, solo per sfilare davanti al paese in festa, farsi vedere dalle ragazze e sentirsi fiero di qualche cosa.
Salvo poi trovarsi nel peggiore inferno umano che si potesse immaginare.
Umano. Questa è la
parola chiave, Quella che usa Vic (ora in zona di guerra) per definire cosa ci sarebbe da fare per fermare il genocidio: “restare umani”. Un obiettivo non da poco.
Umanamente dunque propongo di
lanciare a livello di blogger una seria campagna di boicottaggio delle merci israeliane in nome del pacifismo, del principio, banalmente espresso anche dalla nostra costituzione (lasciamo perdere le questioni di coerenza) e che è semplice semplice:
L’Italia ripudia la guerra come strumento per dirimere le controversie tra i popoli
Che, al di la di qualunque ideologia si possa appartenere dice, semplicemente, che gli israeliani e i palestinesi dovrebbero essere fatti sedere attorno a un tavolo e obbligati a prendere accordi che portino fine agli attacchi. E nel frattempo si cessi immediatamente il fuoco.
Bene. In attesa che questa (banale anch’essa lo so) chimera si verifichi, noialtri abbiamo da sfangare lo stipendio, la spesa, i problemi quotidiani e il problema delle bombe (per il momento) non ce l’abbiamo.
Per quel poco che possiamo fare, contro questa strage, si prenda in considerazione in massa il
boicottaggio.
Sopra ho messo il codice a barre, in questo link ci stanno i marchi dei prodotti che sarebbe meglio evitare di comprare.
Poi fate voi.
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Cloroalclero
(tratto da http://www.cloroalclero.com/?p=465#more-465 )

martedì 30 dicembre 2008

POST DI BERTANI E SACCOCCIO

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Perché l’Italia non sarà mai la Grecia
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di Carlo Bertani
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Nonostante la cappa di silenzio mediatico che ha circondato e circonda la Grecia, molti si sono resi conto che la rivolta greca non è stata un “furore” di pochi esaltati e nemmeno una manfrina abilmente orchestrata dal Palazzo. E neppure una rivoluzione tentata o fallita.
I fatti avvenuti in Grecia sono stati una rivolta spontanea – attizzata sì dall’assassinio di un ragazzo – ma proposta all’attenzione della Grecia e del Pianeta poiché la situazione economico/politica del Paese sta diventando insostenibile.
Le ragioni sono oramai le stesse ovunque: l’incedere, pressante, dello strapotere finanziario sui redditi da lavoro, la medesima mano della globalizzazione che colpisce dappertutto.
La Grecia è un paese di modesta grandezza, e la popolazione vive perlopiù accentrata in poche città, delle quali l’area di Atene/Pireo fa la parte del leone.
Qui sono scoppiate le contraddizioni più evidenti: 700 euro di stipendio contro 500 di affitto, e non crediamo di dover aggiungere altro. La rivolta greca è quindi un soprassalto di dignità, di chi non accetta più d’essere testimone cieco e silente della tragedia di un’intera generazione, sopraffatta dalla globalizzazione e dalle burocrazie finanziarie europee e mondiali.
Altri hanno equiparato la vicenda alla rivolta delle banlieues parigine: stesse coreografie, identica ribellione con auto date alle fiamme e scontri con la polizia. C’è senz’altro del vero nell’accostare i due fenomeni; entrambi sono stati una rivolta prevalentemente giovanile, e la ragione di fondo le accomunava: percepire d’esser destinati al girone infernali degli eterni esclusi, senza speranza né futuro.
In qualche modo, queste rivolte sono il risveglio dal cotonato baluginare delle “Isole dei Famosi”, la battaglia contro le falsità che i mestieranti della politica destri/sinistri ammansiscono a piene mani.
Viene allora da chiedersi perché l’Italia non sia stata contagiata dal “virus” greco, oppure perché “L’Onda” abbia assunto ben altri toni e differenti prassi nella protesta.
In qualche modo, ci viene in aiuto l’analisi sulle vicende francesi; il “cuore” della rivolta erano le banlieues: periferie anonime, sconclusionate e frammentate come “Guernica” di Picasso, abitate in prevalenza da giovani maghrebini di seconda e terza generazione. La rivolta era una vicenda d’esclusi, di persone che non percepivano più i fendenti del sistema finanziario come sopportabili escoriazioni della pelle, bensì come dolorosi affondi nella carne. I quali, possono essere generati da elementi puramente economici – avere poco o nulla, essere costretti al furto per ottenere soltanto i succedanei del gran circo del consumo – oppure una teorizzazione che può avere molteplici radici e valenze: dalla veloce rilettura di un Islam “traghettato” su sponde politiche alla più comprensibile (per noi), normale vicenda di scontro di classe. Forse, meglio, una combinazione d’entrambe.
Anche le connotazioni “sul campo” – non ce la sentiamo di definirle “tattiche”, perché il termine include, sottendendola, la presenza di un’avanguardia organizzata – sono state differenti: battaglia a tutto campo e quasi senza esclusione di colpi nelle notti francesi (ad indicare un sovrappiù di tensione non più elaborabile, gestibile) e testimonianza anche violenta ma ferma – a viso aperto, vera e propria sfida sul campo al potere, non mediabile con altre letture – nelle vie di Atene.
Infine – se riteniamo che sia accostabile – la rivolta degli studenti italiani, che ha cercato di “mostrare i muscoli”, rimanendo però ancorata a precise richieste da porre alla classe politica, dalle quali s’attendeva una risposta. Non a caso, “l’Onda” ha subito sofferto di contraddizioni al suo interno: i fantasmi della “destra” e della “sinistra” – pur negati a parole – non hanno tardato a manifestarsi, e questo senza prendere in considerazione le puerili provocazioni di Piazza Navona.
In altre parole, “l’Onda” attendeva una risposta che né i greci – e tanto meno gli esclusi delle banlieues – attendevano: i primi proponendo l’improponibile, ovvero la semplice caduta del governo, gli altri non manifestando nemmeno chiare richieste, se non l’evidenziare un livello di sofferenza oramai inesprimibile con altri mezzi.
Siamo quindi di fronte a due fenomeni i quali – pur con differente “intensità” e con modalità espressive molto diverse – hanno posto loro stessi come testimonianza aperta e senza rischio di fraintendimenti: siamo qui per dire di “no” al vostra selvaggia “guerra indiana” contro le giovani generazioni, identificate con la maggior parte dell’insieme dei non-abbienti.
La condizione greca è forse quella che più si avvicina a quella italiana, e viene allora da chiedersi perché la “generazione del 700 euro” italiana non abbia usato gli stessi mezzi espressivi – non stiamo qui parlando di violenza – ossia perché le giovani generazioni italiane considerino ancora il potere politico un interlocutore attendibile. Ossia, da un “Noi non pagheremo la vostra crisi” ad un più esplicito “Pagate da voi la vostra crisi, e sparite”.
Perché – per molteplici motivi – i giovani italiani stanno ancora un pochino meglio, anche se stanno un po’ peggio dei loro coetanei di tanti paesi europei.
Per prima cosa, le differenze di reddito in Italia mostrano una marcate eterogeneità, soprattutto fra il Nord ed il Sud del Paese. Poi fra città e piccoli borghi, quindi per classe sociale.
L’eterogeneità geografica è quella più evidente e conosciuta: l’eterno dibattito italiano sul meridionalismo, il “ritardo” incolmabile.
Anche al Nord, però, la situazione è variegata: il ricco Nord Est è meno ricco di prima ed il Nord Ovest – precipitato per molti anni – pare oggi addormentato fra speranze d’assistenza statale ed improbabili rinascite.
Sarebbe sbagliato, però, identificare le tradizionali aree della vecchia industrializzazione come le uniche produttrici di beni e servizi: l’Emilia Romagna è diventata una delle più ricche aree del Paese e così è anche per estese zone del versante adriatico, fino alla Puglia.
Aprendo una breve parentesi, dobbiamo ricordare che, a monte del declino industriale italiano, ci sono vent’anni di stasi nell’innovazione tecnologica, abilmente catalizzata da gruppi di potere che possiamo indicare genericamente nel binomio ENEL/ENI. La campagna “estetica” di Vittorio Sgarbi contro gli aerogeneratori è un vero e proprio rottame della storia, qualcosa che si riesce difficilmente a comprendere, se non si spiega il passo successivo: le centrali nucleari promesse da Berlusconi. Altro “rottame” storico: il quale, però, riporta in poche mani la produzione energetica.
Si tratta di un fenomeno semplice ma ricco d’attributi, che meriterebbe spazio che qui non abbiamo, poiché capire il motivo del rifiuto italiano a giocare la sfida delle nuove tecnologie energetiche è argomento che sgomenta per la sua insulsaggine.
Roma e le grandi città traggono sostentamento in gran parte dal settore pubblico, ed i mille rivoli della corruzione alimentano altre sacche di ricchezza di dubbia provenienza.
Se analizziamo invece la distribuzione della ricchezza per generazioni, scopriamo che gli “over 40” godono ancora – si tratta, ovviamente, di una generalizzazione – di contratti più stabili e remunerativi. Una considerevole quota della ricchezza nazionale è infine quella degli assegni pensionistici i quali, col trascorrere del tempo, sono cresciuti rispetto ad un tempo. Oggi, si va in pensione con maggiori introiti rispetto ai decenni precedenti.
Questa disparità di ricchezza e precarietà di redditi fra le generazioni ha originato – nella struttura familiare – un trasferimento dalle generazioni più anziane a quelle più giovani: il ben noto fenomeno definito – con scarsa educazione e tanta protervia – dei “bamboccioni” da Tommaso Padoa Schioppa. Sarebbe come definire i ministri economici “saltimbanchi”.
Spesso, sono oramai i redditi dei genitori – che ancora lavorano o sono in pensione – a sostenere (in varie forme e modalità) la sopravvivenza dei figli e dei nipoti. Un fenomeno principalmente italiano per la sua diffusione, che “lega” le generazioni con un cappio bicipite: il risparmio delle famiglie decresce, e le semplici “iniezioni” per la sopravvivenza non cambiano di una virgola il destino dei giovani.
Questo fenomeno presuppone, però, che la parte meno giovane della popolazione percepisca redditi consistenti, in grado di “coprire” il deficit dei redditi giovanili.
Ciò avviene perché i redditi da pensione – ad esempio – seppur falcidiati dal passaggio all’euro e dalla rincorsa dei prezzi, sono stati generati dagli accantonamenti pensionistici d’anni lontani, quando le fabbriche lavoravano e non c’era ancora stato il ben noto “sacco” del settore produttivo pubblico ad opera della finanza internazionale. Britannia docet.
Questo vale per gran parte del territorio italiano, Centro compreso, mentre assume minor incidenza – per redditi da lavoro o da pensione – nelle aree meridionali, che non hanno mai avuto un tessuto produttivo diffuso, al massimo godono dei redditi del settore pubblico.
Ci sarebbe quindi da attendersi una situazione esplosiva nelle regioni più povere, che sono sempre le stesse: Campania, Calabria, Basilicata e Sicilia, perché la differenza con le altre regioni è evidente, marcata da tutte le rilevazioni statistiche.
Perché, allora, non ci sono rivolte a Napoli od a Palermo?
Anche qui, dovremo affidarci ad argomentazioni che vanno per sommi capi, poiché le specificità d’alcune aree del meridione esistono, eccome. Basti pensare all’uso spregiudicato dei fondi pubblici che la regione Sicilia opera da anni: là esistono ancora le “pensioni baby” per i dipendenti degli Enti Locali, mentre nel resto del Paese sono scomparse da 15 anni, e l’apparato pubblico è gonfiato a dismisura. La Sicilia ha sempre saputo far valere la propria importanza elettorale, in tutte le stagioni politiche.
Altre aree, come la Puglia, hanno il loro punto di forza nell’agricoltura, che consente un certo margine di reddito in grado di “tappare” qualche buco. Altre zone, invece, hanno alte densità abitative e poche o nulle attività economiche. Qui, ci sarebbe da attendersi un tessuto sociale in perenne rivolta: invece, non avviene.
Il fattore calmierante di molte tensioni sociali è la criminalità organizzata, di seguito – per comodità – definita globalmente come “Mafie”.
La genesi delle Mafie è stata variegata, secondo i luoghi, ma possiamo (tralasciando le origini contadine) definire un percorso che parte dall’estorsione e dalle piccole attività criminali, quindi dal traffico di sigarette e poi di stupefacenti, passa per il traffico d’armi per terminare con il controllo degli appalti pubblici e la collusione (reciprocamente interessata) con la classe politica. Infine, la fase della globalizzazione, vissuta come partecipazione al gran banchetto della finanza internazionale.
In questo percorso, il controllo del territorio è stato essenziale: dapprima per le estorsioni, quindi per le strutture necessarie al traffico internazionale – sigarette, droga, armi, ecc – quindi per i mille addentellati (pensiamo all’edilizia, ai rifiuti, ecc) che permettono la gestione criminale degli appalti. La fase di massima espansione, ossia la finanza internazionale, potrebbe forse fare a meno del tradizionale controllo del territorio, ma le attività finanziarie delle Mafie rimangono legate ai flussi di denaro che essa trae dalle aree che controlla, oppure per le necessità contingenti che certi, lucrosi mercati clandestini richiedono. Pensiamo, ad esempio, alle raffinerie per la droga od alla custodia delle armi.
Un altro aspetto – è difficile, oramai, circoscrivere gli ambiti di “interesse” delle Mafie – è quella che riteniamo la comune gestione economica delle attività produttive, che vengono – ovviamente – “interpretate” dalle Mafie come “territori” nei quali le leggi dello Stato non esistono.
Avremo quindi una panoplia d’attività economiche assai variegate: dalla semplice gestione “in nero” di comuni attività (l’edilizia, ad esempio), fino ad imprese che hanno tutti i crismi della “normalità” – fiscale ad esempio – perché la loro utilità non è nell’azienda stessa, bensì in quello che cela, magari in un sotterraneo od in un retrobottega ben nascosto. Insomma, un tessuto d’Arlecchino per tipologie, diverso secondo le esigenze e le fasi del potere mafioso.
Ovviamente, la popolazione è coinvolta nelle attività delle Mafie e si tratta di una battaglia persa in partenza dallo Stato, giacché l’imprenditoria delle Mafie non sopporta certo i carichi impositivi – fiscali, previdenziali, ecc – che le comuni imprese devo osservare.
Questo, però, fa apparire le Mafie come dispensatrici di benessere: se i dati sulla disoccupazione, in alcune regioni italiane, fossero quelli ufficiali, la popolazione sarebbe alla fame.
Invece, così non è: almeno, non nei termini e nei numeri della statistica ufficiale.
Città come Napoli o Palermo, senza il “contributo” economico delle Mafie, diventerebbero in brevissimo tempo delle lande ingovernabili per lo Stato, che dal fattore calmierante delle Mafie – quindi – trae vantaggio.
Quale interesse avrebbe lo Stato a sconfiggere le Mafie – anche non considerando il reciproco arricchimento dei boss e dei loro referenti politici – se dopo si dovesse accollare l’onere di provvedere alle popolazioni?
Non sarebbe nemmeno possibile sopperire alla bisogna con nuove attività produttive, giacché il tessuto imprenditoriale italiano è fragile, più portato alla rendita finanziaria (di posizione, istituzionale o internazionale) che all’impresa di rischio, che scommette su nuovi prodotti e servizi.
Un’articolata disanima sulle Mafie richiederebbe altro spazio che un semplice articolo, e ci sono scrittori che lo fanno senz’altro meglio del sottoscritto: ciò che ci premeva sottolineare, è che solo le Mafie spiegano la “pace terrificante” di certe regioni italiane, così come in altre il reddito dei giovani viene sostenuto dalle generazioni più vecchie, le quali godono ancora dei frutti maturati in oramai lontani anni di benessere economico. Due fattori che inibiscono e depotenziano qualsiasi rivolta.
Come spezzare questo cerchio inossidabile?
Nessuno, oggi, è in grado di farlo: chi lo sostiene, racconta solo frottole. Le Mafie non temono certo coraggiosi magistrati ed onesti giornalisti: semplicemente, li uccidono.
Ci rendiamo conto che questa sentenza può apparire ingenerosa nei confronti di coloro che s’oppongono (soggettivamente) al potere delle Mafie – e rispettiamo ed ammiriamo il loro coraggio – ma devono convenire che il potere delle Mafie è così vasto, potente ed omnipervasivo che nulla sfugge loro. Sfugge solo ciò che è ritenuto insignificante, oppure ciò che viene tollerato perché non limita il loro potere e riesce, addirittura, a far credere che esista realmente qualcosa che può contrastare il potere dei boss.
Se qualcuno ha ancora dei dubbi, rifletta sull’ultima stagione di lotta alle Mafie, terminata con gli assassini di Falcone e Borsellino. La fase successiva – inaugurata con l’attentato di Firenze in via dei Georgofili – avrebbe posto lo Stato di fronte ad un ben amaro dilemma: accettare la sfida e rischiare che i principali beni culturali, artistici (e turistici) del Paese sparissero in una nuvola d’esplosivo.
Anche il sostegno, offerto dai padri ai figli, durerà ancora per molti anni, poiché interviene un altro fattore a favorirlo: la scarsa natalità, che finisce per accentrare in poche mani patrimoni (soprattutto immobiliari) che un tempo erano suddivisi fra più attori. Non è raro, oggi, scoprire che gli eredi di otto bisnonni sono soltanto due pronipoti, e questo è un aspetto di concentrazione della ricchezza che tende a calmierare la situazione.
Due roboanti retoriche, sempre sostenute dai media di regime, sono quindi un reale “puntello” per lo Stato corrotto ed imbelle: la “solidarietà” delle famiglie italiane – che conduce, inevitabilmente, ad un generale impoverimento ed al mantenimento della precarietà sociale – e la lotta alle Mafie le quali, per il sostegno che “offrono” invece alla stabilità sociale, se non esistessero dovrebbero essere inventate.
Nulla d’eclatante: solo una meditazione per iniziare meglio, con maggior consapevolezza, il 2009.

Carlo Bertani

Prospettive netfuturiste (1)


Elettrorumorismo: una possibilità per l'uomo nuovo
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di Antonio Saccoccio

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L'esplorazione delle facoltà percettive dei sensi è indubbiamente uno degli aspetti più interessanti per un moderno ricercatore estetico. Nel 2004 K. Stockhausen affermò nel corso di un'intervista: "Secondo me gli occhi sono estremamente limitati: vedono solamente la superficie del mondo e dell'esistenza, che non è altro che un'illusione. Sarebbe interessante vedere dentro le cose e comprendere la verità della materia, ma non possiamo arrivarci neppure coi microscopi. Le orecchie, invece, possono entrare in un mondo molto più complicato e molto più ricco: la musica può creare relazioni fra le più fini vibrazioni dell'uomo, e anche trasmetterle".
L'affermazione è sicuramente assai stimolante e suggestiva, anche se oggi è necessario parlare di questi temi in termini maggiormente scientifici. Una maggiore educazione al mondo dei suoni/rumori è sicuramente uno degli obiettivi che più ci stanno a cuore. E sicuramente tante caratteristiche negative del presentismo attuale sono dovute alle storture indotte dalla civiltà dell'immagine. E' noto anche, nell'ambito delle neuroscienze e della psicologia cognitiva, che lo studio e la comprensione della musica aumentano considerevolmente le nostre potenzialità intellettive (ma non parlateci di "effetto Mozart" per favore!). L'elettrorumorismo net.futurista è in realtà da una parte un'indagine a tutto campo sulla percezione che l'uomo ha del mondo sonoro che lo circonda, dall'altra la comunicazione, attraverso quel mondo sonoro, di significati in grado di potenziare la rivoluzione netfuturista. Si tratta di due ambiti di ricerca che devono procedere necessariamente di pari passo, per non naufragare in quello sperimentalismo manierista che ha rappresentato (e rappresenta ancora) la morte della musica e dell'arte in genere. Il netfuturismo sviluppa con l'elettrorumorismo un altro tassello verso l'uomo nuovo a mille dimensioni.
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lunedì 29 dicembre 2008

POST DI CEDOLIN E KELEBEK
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di Marco Cedolin

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Durante le settimane che hanno preceduto il Natale si sono verificati alcuni fenomeni, anche gravi, di acqua alta a Venezia, che hanno indotto molti uomini politici ad enfatizzare la valenza del progetto MOSE (al quale sono stati destinati parte degli oltre 16 miliardi di euro inseriti in finanziaria per le grandi opere) attualmente in costruzione, quale panacea in grado di risolvere il problema.
In particolare il ministro Brunetta, noto fino ad oggi per le sue smanie di fustigatore del pubblico impiego, ha ripetutamente messo l’accento sulla necessità di procedere celermente nella costruzione dell’opera che, a suo dire, risolverà definitivamente il problema.
Davvero il Mose risolverà il problema dell’acqua alta a Venezia e davvero si tratta del sistema migliore per affrontare una situazione tanto complessa? Proviamo ad entrare nel merito della questione per comprendere a chi veramente servirà il MOSE e quali saranno i soggetti che realmente beneficeranno della sua costruzione.
Il Mose, come il TAV è in realtà una sorta di anacronistico dinosauro che nonostante le sue molteplici criticità e la natura obsoleta di un progetto “pensato” sul finire degli anni 80 è riuscito ad arrivare fino ai nostri giorni con la condivisione di tutti i governi che in quasi 20 anni si sono succeduti al potere.L’opera si propone di risolvere il grave problema delle acque alte che affligge Venezia e la sua laguna, attraverso una serie d’interventi invasivi e costosissimi del tutto inadeguati ad affrontare un fenomeno complesso e dalle cause composite come quello delle alte maree.
Nel corso dell’ultimo secolo il dislivello fra il suolo di Venezia e il livello del mare si è ridotto di circa 25 cm. facendo si che i disagi connessi all’acqua alta (allagamento di piazze, abitazioni ed esercizi commerciali) siano aumentati in maniera considerevole fino a mettere a repentaglio in propensione futura la stessa sopravvivenza della città.
L’intenso incremento dell’intensità e frequenza delle alte maree è quasi totalmente da imputarsi ad una serie d’interventi umani ispirati unicamente alla creazione del profitto, senza prestare alcuna attenzione ai delicati equilibri ambientali che caratterizzano la laguna. Gli esempi più eclatanti si possono riscontrare nel dissesto idrogeologico del territorio lagunare, indotto dall’approfondimento delle bocche di porto e dagli scavi dei canali portuali al fine di consentire il transito delle super petroliere, con la conseguenza di trasformare la laguna in un vero e proprio braccio di mare. Nella devastante serie di bonifiche che hanno sottratto il 30% dell’intera superficie lagunare all’espansione di marea, spesso per insediare stabilimenti industriali ed infrastrutture e nello sfruttamento indiscriminato delle acque di falda usate per alimentare e raffreddare i cicli produttivi del polo industriale di Porto Marghera.
Il Mose, contravvenendo apertamente ai criteri fondamentali della Legge Speciale per Venezia (reversibilità, gradualità, flessibilità e sperimentabilità) non tenta di porre rimedio alle cause del problema delle acque alte, così come invece avrebbero fatto tutti i progetti alternativi, ma interviene semplicemente sul fenomeno, ostentando gli stessi atteggiamenti invasivi ed impattanti che il problema hanno contribuito ad ingenerarlo.
Il fulcro del sistema Mose sarà costituito da 79 paratoie d’acciaio pesanti circa 350 tonnellate e lunghe fino a 30 metri, che verranno posizionate alle bocche di porto, incernierate dentro a cassoni di calcestruzzo armato del peso di 12.500 tonnellate l’uno. Tali paratoie ripiene d’acqua e affiancate l’una all’altra in modo da creare una barriera, in condizione di riposo resteranno adagiate nelle loro strutture di alloggiamento senza sporgere al di sopra del fondale. Nel caso di maree superiori ai 110 cm. le paratoie verranno svuotate tramite l’immissione di aria compressa e si solleveranno fino ad emergere ruotando intorno all’asse delle cerniere, creando così una sorta di diga mobile in grado d’isolare temporaneamente la laguna dal mare.
Oltre alle paratoie il progetto comporterà l’installazione di 12.000 pali di cemento armato e di 5960 palancole metalliche lunghe fino a 28 metri, lo sbancamento dei fondali alle bocche di porto dragando circa 5.000.000 di m³ di materiale sedimentato attraverso centinaia di anni e la ricopertura degli stessi (al fine di proteggerli dall’erosione marina) con 8.575.000 tonnellate di pietrame proveniente da cave nazionali ed estere. Ci sarà spazio perfino per la costruzione di una vera e propria isola artificiale della lunghezza di 500 metri, destinata a fare da spalla per le barriere mobili e ad ospitare i generatori a gasolio di potenza assimilabile a quella di una centrale elettrica, indispensabili per la produzione dell’aria compressa.
Già attraverso la lettura di questi dati si può comprendere l’assurdo “gigantismo infrastrutturale” del Mose, destinato a tradursi inevitabilmente in un altissimo costo di costruzione, circa 4,5 miliardi di euro, di gestione, circa 60 milioni di euro l’anno e nei lunghissimi tempi che saranno necessari per portare a termine il progetto, circa 10 anni. Appare inoltre evidente come la messa in essere di opere così faraoniche e fortemente impattanti sull’ecosistema lagunare abbia per forza di cose carattere di assoluta irreversibilità.
Oltre alle criticità connaturate nella sua prerogativa di violentare in maniera irreversibile il territorio, il sistema Mose si presenta come un progetto di scarsa utilità nel preservare Venezia dal fenomeno delle acque alte, poiché intervenendo solo quando l’alta marea supera i 110 cm. rimedierebbe solamente al 5% degli allagamenti che si verificano ogni anno. I dati statistici concernenti l’ultimo decennio indicano infatti che una struttura come quella del Mose si sarebbe attivata mediamente solamente tre volte l’anno, a fronte di oltre una cinquantina di casi annui di acque alte minori di 110 cm. che avrebbero continuato a creare danni e disagi nonostante la presenza dell’opera. Inoltre se nei prossimi decenni continuerà l’innalzamento del livello marino in conseguenza dell’effetto serra, come ampiamente previsto dagli scienziati, il Mose perderebbe anche la poca utilità residuale, diventando di fatto completamente inutilizzabile.
Se alla probabile scarsa o nulla utilità del progetto aggiungiamo i pericoli legati alla possibilità d’infiltrazioni di gas metano e anidride solforosa attraverso le solette dei manufatti in calcestruzzo, la pesante penalizzazione delle attività di pesca in laguna, i gravi intralci alla navigazione dei pescherecci che verranno a determinarsi, i danni al turismo indotti da almeno 10 anni di grandi cantieri, ecco che abbiamo il quadro generale di un’opera destinata a danneggiare tutti coloro che avrebbero dovuto trarne vantaggio, per compiacere invece un unico soggetto.
Tale soggetto è rappresentato dal Consorzio Venezia Nuova, un potente pool d’imprese che in qualità di General Contractor si pone come concessionario unico per gli studi, le progettazioni e la messa in essere dell’intero complesso d’infrastrutture che verranno finanziate interamente attraverso il denaro dei contribuenti.
All’interno del Consorzio Venezia Nuova possiamo ammirare quasi tutti i nomi di spicco dell’imprenditoria delle costruzioni che da decenni stanno accumulando immense fortune finanziarie attraverso la costruzione delle grandi infrastrutture in Italia e nel mondo e che a breve si spartiranno le nuove gare di appalto proposte dal governo. Da Impregilo (vera e propria multinazionale del cemento e del tondino) ad Astaldi (altro colosso del settore) passando attraverso l’Impresa Costruzioni ing. E. Mantovani s.p.a. (monopolista delle costruzioni in veneto) e svariate società facenti parte dei gruppi IRI, ENI e Mazzi.
Ancora una volta, come nel caso dell’Alta Velocità ferroviaria, lo Stato invece di procedere al risanamento della laguna e delle ferrovie che versano in condizioni disastrose, preferisce destinare somme estremamente rilevanti (che i nostri conti pubblici non possono permettersi) nella costruzione di opere mastodontiche ed estremamente impattanti che anziché risolvere i problemi preesistenti aumenteranno l’indebitamento pubblico e ne creeranno di nuovi.
Ancora una volta l’interesse dei grandi gruppi di potere finanziario ed economico, incarnati dalla consorteria del cemento e del tondino, viene anteposto a quello della collettività, senza nessun rispetto per gli equilibri ambientali e per la salute del territorio.
Tutto questo nonostante un gruppo di esperti nominati dal Comune di Venezia quale organo di consulenza per le linee e le opere di salvaguardia della laguna, nella sua relazione del 15 novembre 2005 avesse sostanzialmente bocciato il MOSE considerandolo un progetto obsoleto, costoso, impattante e non in linea con i criteri fissati dalla Legge Speciale per Venezia, collocandolo all’undicesimo posto fra i 12 progetti alternativi esaminati.
Secondo il giudizio degli esperti qualunque intervento mirato alla riduzione delle alte maree e alla salvaguardia della laguna non dovrebbe limitarsi a combattere gli effetti del fenomeno ma piuttosto agire sulle cause che concorrono a determinarlo. Operando in questo senso studi ed analisi di ricercatori ed idraulici universitari e del CNR italiano e francese, hanno dimostrato come sarebbe possibile ridurre fino a 21 cm. tutte le maree, riportando l’intera laguna agli equilibri mareali di metà Ottocento.
Tali studi individuano la necessità di ridurre i fondali alle tre bocche di porto, in ragione dell’uso differenziato delle stesse, propongono l’utilizzo di navi – porta da collocare periodicamente nella stagione invernale, con il compito di rallentare ulteriormente l’accesso e la forza della marea ed evidenziano l’opportunità di riaprire al flusso di marea le valli da pesca, come prevede da decenni la Legge Speciale. Agendo in questo senso si potrebbe ottenere il duplice effetto di salvare la laguna dalle acque alte e contemporaneamente indurre una naturale ricostruzione morfologica del territorio, riducendo la perdita di milioni di metri cubi di sedimenti dei fondali.Tali interventi avrebbero un bassissimo impatto ambientale, sarebbero completamente reversibili, si potrebbero realizzare in tempi estremamente brevi ed avrebbero un costo di realizzazione più che dimezzato rispetto al Mose.
In tutta evidenza ai lestofanti della politica bipartisan, così come al ministro Brunetta e ad Antonio Di Pietro che lo scorso anno decretò di fatto la prosecuzione dei lavori, ciò che interessa non sono purtroppo i risultati, bensì esclusivamente gli altissimi costi determinati dalla costruzione dell’opera che permettono l’arricchimento della lobby del cemento e del tondino e degli uomini politici ad essa funzionale. Il Mose sicuramente non salverà Venezia, ma sta già salvando i profitti miliardari di buona parte della grande imprenditoria delle costruzioni.
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In basso, potete vedere due volti felici: quello del ministro degli esteri israeliano e quello del ministro degli esteri egiziano. E in alto , una bambina palestinese che non ride.


di Miguel Martinez (Kelebek)
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Quello che stanno facendo a Gaza, la ciliegia rosso sangue sulla torta dopo due anni di embargo e bombardamenti, lo sapete tutti.

Sabato scorso era una delle festività più sacre del calendario ebraico - lo Shabbat di Hanukkah. Per poter compiere la strage di Gaza, Ehud Barak ha dovuto chiedere una dispensa speciale dai rabbini. Non so perché sia stata scelta una data così particolare, per un attacco preparato da ben sei mesi, come rivela Haaretz. Lo stesso nome dell'operazione, Piombo fuso, si riferisce ai dreidel o dadi con cui i bambini giocano a Hanukkah, e che il poeta sionista H.N. Bialik invitava a costruire usando il "piombo fuso".
La strage di Hanukkah è stata preparata da due gesti: la promessa di riaprire, in parte, il valico di Eretz, che doveva servire per ingannare i palestinesi; e un attacco contro 36 organizzazioni islamiche in Cisgiordania.
Le organizzazioni colpite non erano militari, ma sociali: mentre gli uomini del regime golpista di Abu Mazen pensano a costruirsi ville con gli aiuti europei, Hamas in Cisgiordania continua a organizzare i servizi sociali, nonostante una raffica di arresti.
Distruggere questa rete di servizi sociali serve sia a togliere consensi a Hamas, che a rendere ancora più miserabile la vita dei nativi palestinesi e promuoverne così l'emigrazione.
Così, i soldati israeliani sono entrati in tutte le piccole isole della cosiddetta autonomia palestinese in Cisgiordania, dove hanno sequestrato autobus, bloccato centri commerciali e chiuso una scuola per ragazze e un'associazione che distribuisce cibo ai poveri. Hanno anche chiuso un centro medico a Nablus, impossessandosi dei computer, del denaro e dei mobili. Dice Haaretz
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"Le istituzioni vicine a Hamas che sono state colpite finora comprendono scuole, centri medici, centri di beneficienza e persino mense popolari e orfanatrofi. Decine di associazioni sono state chiuse e il cibo sequestrato".
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Il cibo degli orfanotrofi sequestrato...
A volte, l'immensità di quello che stanno facendo ai nativi palestinesi si coglie meglio attraverso piccole cose come questa.
Non riesco a visualizzare un palazzo che viene giù, con i miei figli dentro.
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"I parenti cercano tra i cadaveri e i feriti, per seppellire presto i morti. Una madre i cui tre bambini sono stati uccisi, e che giacciono l'uno sopra l'altro, nell'obitorio, grida, urla di nuovo e poi tace."
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Oppure il padre che deve portarsi a casa il cadavere del bambino di sette anni in una scatola di cartone, perché all'obitorio hanno finito le lenzuola...
Ma riesco - appena - a immaginarmi cosa voglia dire vivere per tre anni sotto l'impatto del boom sonico: in ore sempre diverse, ma preferibilmente in piena notte, i jet israeliani che sorvolano Gaza simulano, superando il muro del suono, il rumore di tremende esplosioni - un rumore talmente forte da far abortire le donne o da far saltare le vene nel naso, rompere i vetri o far crollare tetti.
Tre anni fa, per un errore tecnico, quello che è la vita quotidiana dei nativi palestinesi diventò per un unico attimo un incubo anche dei dominatori:
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"L'esercito fu costretto a chiedere scusa quando un boom sonico fu udito per centinaia di chilometri dentro Israele la scorsa settimana. Il quotidiano Maariv lo descrisse come "il suono di un pesante bombardamento. Il rumore che scosse i cieli israeliani è stato spaventoso. Migliaia di cittadini sono saltati fuori dai loro letti, colti dal panico, e molti di loro hanno telefonato preoccupati alla polizia e ai vigili del fuoco. Le centrali telefoniche di Tel Aviv e dei distretti centrali ricevettero tante chiamate che non riuscirono più a funzionare."
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Il governo israeliano ha avuto la delicatezza di mandare il ministro degli esteri al Cairo, la capitale dei suoi complici nell'embargo a Gaza, per avvisare Hosni Mubarak della prossima strage.


mercoledì 24 dicembre 2008

Buon Natale a tutti i lettori e arrivederci al 29 dicembre
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POST DI KELEBEK, VACCA, BINAGHI


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di Miguel Martinez (Kelebek)

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Babbo Natale, il golem buono e trasversale del consumo natalizio, è una figura demoniaca dei nostri tempi, che contribuisce alla deformazione e al pervertimento di solito irrimediabile delle più giovani generazioni.
Se si osa dire questa banale verità, si viene accusati di voler privare tali giovani generazioni della magia dell'infanzia. Vorrei proprio sapere cosa avrebbe di magico questa sorta di facchino per conto della GD (Grande Distribuzione), la cui magia consiste nel far comparire merci; cosa avrebbe di magico la sua fabbrica di giocattoli dove non si sciopera mai; o il suo costume indossato per le vie commerciali da decine o centinaia di replicanti immigrati e precari.
Babbo Natale porta addosso poi il segno più chiaro dell'artificialità: il moralismo. Creatura imposta dai genitori ai figli, che aiutano a stilare le famigerate Lettere a Babbo Natale, la sua funzione più evidente è quella ricattatoria - Babbo Natale arriverà solo se ti comporti bene[1].
Se mi è lecita una nota personale - la mia grande fortuna è di essere cresciuto con una visione opposta, che rivendico fieramente.
Sapevo da sempre che il Babbo Natale di cui si parlava (a quei tempi relativamente poco) era una truffa. Invece, la mia magia veniva dai libri di Lewis Carroll, Alice's Adventures in Wonderland e Through the Looking Glass and what Alice Found There.
Dico "libri", e ne cito i titoli in inglese, perché si tratta per me sempre e solo di libri in lingua inglese. So che ne traggono film e fumetti e gadget e quant'altro da oltre un secolo, so che l'Industria del Bambino Felice ne ha estratto miliardi da far spendere in cocaina ai propri dirigenti; ma grazie a Dio, non ho mai avuto contatti diretti con nulla di tutto ciò.
Babbo Natale è un'imposizione dei genitori ai figli, e dell'intero sistema sociale ai genitori. Babbo Natale è disciplina ricattatoria. E la sua unica mission (per usare l'aziendalese, che non è l'inglese) consiste nella mediazione di merci.
Lewis Carroll fu l'esatto contrario.
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"Il perché di questo libro non può e non deve essere spiegato a parole. Le persone per cui la mente di un bambino è un libro sigillato e che non vedono nulla di divino nel sorriso di un bambino leggerebbero invano tali parole; mentre chiunque abbia amato un bambino, non ha bisogno di parole. Perché lui avrà conosciuto la awe che cade su qualcuno che si trovi in presenza di uno spirito uscito fresco dalle mani di Dio, su cui non è ancora caduta alcuna ombra di peccato, e solo il tocco più esterno dell'ombra del lutto; avrà sentito l'amaro contrasto tra l'egoismo che guasta le sue migliori azioni e la vita che è solo amore che trabocca. Perché penso che il primo atteggiamento di un bambino verso il mondo consista in un semplice amore verso tutte gli esseri viventi. E avrà appreso che la migliore opera che un uomo possa compiere sia quando agisce solo per amore, senza pensare alla fama o al guadagno o a un premio terrestre".[2]
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Non si tratta affatto di un esercizio di retorica.
Prima di tutto, Alice non nasce per fama o guadagno, ma effettivamente per amore, grazie anche - ovviamente - alla violenza di un sistema sociale che con la fatica dei contadini e degli operai poteva permettere a un timidissimo epilettico di vivere come matematico. Come la stessa violenza ha permesso che esistesse, per la prima volta, una vera e propria infanzia con cui quel matematico potesse comunicare.

L'amore è quindi la condizione fondamentale dell'autenticità - e nel racconto di Babbo Natale non si trova traccia, né dell'uno né dell'altra.
Lewis Carroll non fu certamente un sovversivo politico; eppure la sua opera sottintende un'idea davvero rivoluzionaria, possibile solo grazie alla natura indefinita della religione anglicana: la verità si trova dentro lo "spirito uscito fresco dalle mani di Dio". L'anima non proviene dal peccato, da cui la deve guarire la correzione sociale; piuttosto, per Carroll, l'anima si guasta, tra lutto, peccato ed egoismo, nel corso della vita.
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"Still she haunts me, phantomwise.
Alice moving under skies
Never seen by waking eyes."
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Chi invece è in grado di ascoltare ciò che vive dentro il bambino, è sopraffatto da ciò che Lewis Carroll chiama con quella meravigliosa e intraducibile parola inglese che è 'awe' - una parola che lascia, letteralmente, a bocca spalancata.
La morale implica distinzione: questo si può fare, questo no... invece, l'atteggiamento primario di un bambino consiste nel "semplice amore verso tutte gli esseri viventi". Questo rifiuto di operare una distinzione è quindi amorale (non immorale); e tutta l'opera di Lewis Carroll è infatti assolutamente amorale. Non pretende di insegnare nulla, non indica esempi né positivi né scellerati.
Ma scorre con l'amore radicale che c'è nel bambino, nei suoi punti di vista imprevisti, arricchito solo dall'ironia e dal dominio del linguaggio dell'adulto.
Nella storia di Babbo Natale, sono i grandi magazzini che parlano, con la complicità dei genitori.
Nella storia di Alice, è Alice che parla, racconta, si perde, si addormenta, si risveglia e ride, si tira su le maniche e con bright eager eyes, raccoglie eccitata le piante profumate che crescono nel fiume.
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"What mattered it to her just then that the rushes had begun to fade, and to lose all their scent and beauty, from the very moment she picked them? Even real scented rushes, you know, last only a very little while - and these, being dream-rushes, melted away almost like snow, as they lay in heaps at her feet - but Alice hardly noticed this, there were so many other curious things to think about".
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Miguel Martinez (Kelebek)

( tratto da http://kelebek.splinder.com/post/19408259/La+disputa+di+Alice+e+Babbo+Na )

[1] Ci deve essere un motivo, poi, per cui i genitori preferiscono scaricare sul Grande Distributore Automatico Rennamunito le complessità psicologiche implicite nello scambio di regali, invece di vivere speranza, gratitudine, felicità e disappunto insieme.

[2] Lewis Carroll (Charles L. Dodgson), The Complete Illustrated Lewis Carroll, with an introduction by Alexander Woollcott, Wordsworth Editions, 1996, Ware, UK, p. 7.

L’aborto non è un raffreddore
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di Nicola Vacca
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Abortire legalmente senza intervento chirurgico né anestesia, con un semplice farmaco, restando in laboDimensione carattereratorio poche ore. L’imminente introduzione della Ru486 sta già scatenando polemiche.
In realtà la questione è delicata visto che già esiste una legge sull’aborto che funziona anche bene.
L’introduzione dell’aborto facile attraverso la somministrazione di un farmaco ci mette di fronte a problemi etici che hanno a che fare con il concetto di responsabilità.
La diffusione di questa pratica diffonderà una deresponsabilizzazione delle strutture mediche e soprattutto comporterà una leggerezza di comportamento da parte delle giovani coppie che vivranno la loro sessualità con immaturità e leggerezza, sapendo di poter contare sul farmaco per sbarazzarsi in maniera sbrigativa di eventuali figli della colpa.
La pillola di cui si parla non è e non può essere considerata un anticoncezionale bensì un vero e proprio farmaco abortivo.
È particolarmente controverso anche dal punto di vista della sua sicurezza ed efficacia clinica.
La sperimentazione della Ru486, che non è un anticoncezionale ma un vero e proprio farmaco, introduce problemi seri. Ma occorre fare chiarezza ed uscire dall'ipocrisia di chi crede ancora che si possa far passare per anticoncezionale un farmaco abortivo e di chi - ancora peggio - pretende di convincerci che per la donna sarà tutto più facile. E che quindi debba essere diffusa (insieme alla pillola) anche una cultura della normalizzazione dell’ aborto facile.
Per dirla fuori dai denti: l’aborto non è un raffreddore.


Nicola Vacca
I LIBRI DELL’ANIMA - recensioni
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Bisogna essere morti per essere degni di pietà?
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di Valter Binaghi

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Esistono scrittori, e sono i più, che sono essenzialmente narratori di miti o favole collettive: nella propria personale creazione artistica danno forma alla sensibilità ma anche anticipano le grandi svolte di un epoca e forniscono al loro tempo un linguaggio rinnovato ma condivisibile, quell’illusione collettiva che chiamiamo cultura. Che Genna non sia uno scrittore di questo genere lo ha dimostrato a mio avviso con Hitler, in cui il suo raffinatissimo artigianato non è riuscito ad andare oltre lo stereotipo del XX secolo di Hitler come incarnazione del male: libro che ho definito malignamente l’opera di uno che studia da ministro della cultura.
Per fortuna forse non sua ma nostra, Genna è scrittore di altra tempra e di altro destino. La sua è scrittura sciamanica, di chi racconta essenzialmente sè stesso non per autoidolatria narcisistica ma perchè in sè stesso partorisce, incarna, crocifigge e resuscita il senso stesso di un divenire che sfugge alla formula e si dipana nella purezza di un canto per il quale la distinzione tra poesia e prosa risulta ormai inutile e ininfluente. In questo senso e direzione il talento letterario di Giuseppe Genna non mi pare avere uguali in questo paese, e comunque nessun libro come questo da molto tempo a questa parte mi ha precipitato negli abissi, privandomi di difese e preconcetti da scrittore vero o presunto come Ishtar dei suoi veli davanti al Dio della morte.
Italia De Profundis, (Minimum fax, pp. 348, Euro 15,00) è tale storia del 2007: la morte del padre, l’impossibilità di un amore, la deriva in esperienze sordide e squalificanti che vorrebbero suicidare definitivamente la mancanza dell’amore medesimo, il festival del cinema di Venezia e il trionfo bacchico delle mitologie del rappresentare, fino all’orgia dell’idiozia italiota di un Villaggio Vacanze. Ma a che serve riassumere linearmente una scrittura che la linearità rifiuta in linea di principio? Leggetelo e basta, adoratelo e compatitelo come ho fatto io, riconoscete la genialità quando è evidente e stigmatizzatene l’infantilismo (perchè nessuna mente razionale sta al passo con la danza dello sciamano, neanche quella dello sciamano medesimo). Alla fine, se vi va, scrivetene soprattutto a lui. Genna è lo scrittore più generoso che conosco, nel senso che è capace di interloquire lungamente e con profondità con chiunque si interessi sinceramente dello scrivere, dal celebrato recensore all’ultimo dei blogger.
Io, per parte mia, nel ringraziarlo di quest’opera che mi ha tenuto compagnia per giorni (e in un luogo della mia anima in cui lascio entrare pochi e malvolentieri) gli voglio porre solo tre domande, in cui si celano delle riserve.
1) Nel romanzo un personaggio accosta Genna e si complimenta con lui per il Dies Irae, affermando di avervi riconosciuto episodi di storia italica da lui stesso vissuti. Genna ne constata il fallimento del libro: tutto l’autore avrebbe desiderato, tranne fornire materia di identificazione a un lettore ormai mutato in “spettatore”. La domanda è: Giuseppe, credi che l’Advaita Vedanta, il catarismo metodologico, la magia della “Golden Dawn” o di Crowley, cioè i riferimenti di cui dissemini il testo e che costellano l’interpretazione autoriale della tua voce narrante, siano più autenticamente post-romanzeschi e post-spettacolari? Non sai che queste cose sono ormai presenti nella biblioteca dell’assessore di Rogoredo, o nei siti New Age che spacciano post-umano a buon mercato? In questo modo, oltre a innalzare forche caudine per il lettore separandolo dalla purezza della tua scrittura, non contribuisci tu stesso alla “spettacolarizzazione” che temi?
2) L’autoisolamento, la negazione del mondo, l’impazienza dell’apocalisse, sono la condizione esistenziale di una vocazione “sciamanica” che io ti riconosco con sincerità. Ma fare di questo il metro di giudizio della condizione umana come tu fai, e trascinare nella stessa volgare insensatezza l’egotismo sfrenato dei farisei e la custodia della forma dei padri, bollandoli ugualmente come ricerca di una hitleriana e robotica linearità, non ti trascina a un disprezzo furibondo e universale per l’umana condizione che forse non vorresti? L’unica autentica pietà per un essere umano che si coglie nel tuo testo è quella per il padre defunto. Bisogna essere morti per essere degni di pietà?
3) La stessa indignazione morale e civile per questo paese “devastato e vile”, non perde forza e valore dal momento che niente e nessuno è salvato e salvabile, non ci sono Lari nè Penati ed Enea resta a contemplare la città in fiamme, rapito in un’ebbrezza che a tratti lo rassomiglia un po’ troppo a Nerone?
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Valter Binaghi
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martedì 23 dicembre 2008

POST DI BERTANI, CEDOLIN, BUFFAGNI
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Tu scendi dalle stelle…
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di Carlo Bertani
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In questi giorni, tutti scendono dalle stelle: Dei ed Angeli, stelle comete e buoni propositi.
Chi non c’attendevamo proprio che prendesse la cosa alla lettera, sono gli Stati Uniti d’America: sì, proprio i grandi Iuessé.
Con uno scarno comunicato, la NASA ha dichiarato che i tre Shuttle ancora in esercizio, dopo il 2010, “saranno messi in vendita al modesto prezzo di 42 milioni di dollari, ossia circa 30 milioni di euro al pezzo,inclusi pulizia degli interni, asportazione di materiali tossici e trasporto”
[1].
Insomma, un “tutto compreso” che sa di “barba e capelli”, oppure di un “pacchetto” turistico per Parigi che comprende anche il rituale spogliarello a Pigalle.
Da un lato, non possiamo esimerci d’ammirare il pragmatismo anglosassone: se gli Shuttle fossero stati italiani, le cose avrebbero preso ben altra piega.
Per prima cosa si sarebbe gridato al tradimento per la dismissione della patria ferraglia, quindi si sarebbero immediatamente formati i due comitati: quello della salvezza ad ogni costo e l’altro, per una rottamazione ad incentivi.
Nel primo caso, sarebbe sorta dal nulla una “cordata” che avrebbe immediatamente suddiviso gli Shuttle in parti: quelle “nobili” a noi, e l’amianto e tutta la rumenta ad una “bad company”. Nel secondo caso, sarebbero stati “caricati” sul bilancio statale gli oneri di rottamazione: se, poi, a comprarli fossero stati Tronchetti, De Benedetti e Ligresti, poco importa. Quando si rottama si rottama, e chi se ne assume l’onere ha ben diritto a veder riconosciuta la sua buona volontà!
E’ Natale, e non ce la sentiamo d’approfondire la cosa, perché ci condurrebbe ancora una volta a constatare la pochezza delle nostre “destra” e “sinistra”: stiamo incartando il camion dei pompieri per il nostro primo nipotino, e che gli apparatcik d’ogni colore vadano a quel paese.
Quel che più colpisce è la decisione presa dagli USA: i rifornimenti per la stazione spaziale internazionale saranno eseguiti mediante navicelle russe, europee e (forse) giapponesi. Che diventerà finalmente “internazionale”, senza americani a fare i padroni e gli altri i camerieri.
Che la vicenda degli Shuttle fosse terminata, già si sapeva: a parte il fatto che i velivoli sono giunti al termine della loro vita operativa (le vecchie “ore volo”), tutto l’andazzo non è stato proprio un successo. Su cinque mezzi costruiti, due sono finiti in una palla di fuoco: le vecchie navette (modello Apollo o Soyuz) si sono dimostrate più robuste e sicure, tanto che la NASA progetta per il futuro qualcosa d’analogo.
In realtà, si tratta di un futuro un po’ sfumato, che s’arrovella fra le dispute dei condizionali: “sarebbe”, “potrebbe”, eccetera perché, quel centinaio di milioni di euro che ricaveranno dalla vendita ai musei dei velivoli, serviranno per la pura sopravvivenza dell’Ente.
Da un punto di vista prettamente tecnologico – intendendo in questo la filosofia di progetto – si è trattato del classico “passo più lungo della gamba”, poiché il sogno d’avere un velivolo da/per lo spazio riutilizzabile è svanito nell’evidenza della loro scarsa affidabilità, soprattutto per gli scudi termici.
Certamente, per mettere in cantiere missioni su Marte, serve ben altro che degli Shuttle, i quali sembrano stare insieme con la plastilina. Anche i motori termici soffrono di scarsa autonomia, e bisogna prenderne atto.
Probabilmente, dovrà scorrere ancora molta acqua sotto i ponti: fisici ed ingegneri dovranno arrovellarsi fra nuove scoperte, calcoli e scienza dei materiali, ancora per tanto tempo. Per farlo, ci vorranno soldi che oggi non ci sono nemmeno per salvare la cassa malattia dei dipendenti dell’auto. Figuriamoci per assoggettare i marziani: e se esistessero? Un altro Iraq?
Per trovare fondi, però, bisognerebbe iniziare a gestire meglio quelli che abbiamo: non è trascurando la casa dove abitiamo che possiamo sperare di mettere da parte i soldi per comprarne una per le vacanze. Semplicemente, rischieremmo di dover accendere un mutuo per le riparazioni della prima, e niente seconda casa.
La morale della favola è che abbiamo un solo pianeta, e che per tanto tempo non avremo la possibilità reale di lasciarlo per vivere altrove, senza essenziali cordoni ombelicali. Iniziamo a trattarlo meglio: chissà, con una buona gestione ed il tempo necessario, troveremo anche qualcosa per sostituire le attuali, rudimentali “vele” spaziali.
Con la pazienza e la saggezza dei nostri vecchi, che sarebbe meglio non dimenticare mai.
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Carlo Bertani

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[1] Fonte: Repubblica, 20 Dicembre 2008
Dubai e la spiaggia refrigerata
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di Marco Cedolin

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Nessun luogo al mondo è in grado di rappresentare la filosofia della “crescita infinita”, che dalla seconda metà del XX secolo anima l’uomo moderno, in maniera così adamantina quanto la città di Dubai.
La capitale di uno dei sette stati che compongono gli Emirati Arabi Uniti sembra ergersi a terminale delle ambizioni, spesso intrise di utopia, che permeano la nostra società.
Desiderio di dominio assoluto sulla natura, ossessivo edonismo consumista, continua ricerca del gigantismo strutturale, esaltazione della tecnologia quale strumento onnipotente, celebrazione dell’individualismo di massa, sono tutti atteggiamenti che sembrano fondersi magicamente fra le mura di quello che molti considerano un vero “paradiso artificiale”.
Dubai rappresenta l’ inseguimento incessante del primato, la perdita di ogni senso del limite, la proiezione verso l’esterno di tutti i bisogni umani, la gratificazione vissuta nel soddisfacimento del “capriccio”, nell’appartenenza ad una realtà artefatta tanto più affascinante quanto più artificiosa.
Non appena ci si accosta a Dubai si percepisce l’impressione di osservare un luogo di fantasia collocato a metà fra le “città del futuro” tanto care alla letteratura fantascientifica degli anni 70 ed i fumetti di Walt Disney che ci accompagnavano da bambini. L’intrecciarsi delle strutture già esistenti con quelle in fase di realizzazione e con la molteplicità dei progetti che sono sul punto di prendere il via, costituiscono un conglomerato in grado di suscitare tutta una ridda di sensazioni che traslano dal meravigliato stupore fino al preoccupato sgomento.
Elementi del passato e scorci di futuro s’intrecciano in questa sorta di “non luogo” dove tempo e spazio assurgono al ruolo di entità empiriche in precario equilibrio fra loro.
Accanto agli arcipelaghi di isole artificiali, al Burj Al Arab, hotel a 7 stelle a forma di vela ricoperto da milioni di microlampadine, al grattacielo girevole, all’hotel sottomarino con 220 camere collocate sul fondale marino e allo Sky Dubai, mega struttura all’interno della quale si scia su montagne artificiali all’interno di una cupola mantenuta sotto lo zero nonostante la temperatura esterna sfiori i 50°, mentre nei cottage e nei bar che contornano le piste gli impianti di riscaldamento sono perennemente accesi, sarà inaugurato entro la fine del 2009 anche il Palazzo Versace che garantirà perfino un sistema di raffreddamento della battigia.
Sotto alla sabbia della spiaggia, che si troverà a pochi passi dal lussuosissimo resort della famosa griffe italiana, sarà presente un sistema di tubature supertecnologico. Questo raffredderà la superficie e grazie ad esso gli ospiti potranno godersi il sole di Dubai senza soffrire per le alte temperature, potendo perfino sdraiarsi sulla sabbia.
Alle molte persone che hanno fatto notare come tale sistema sia pesantemente inquinante, e più in generale Dubai rappresenti l’esatta antitesi di tutti gli sforzi che si stanno tentando di fare a livello mondiale per di arginare i mutamenti climatici attraverso il risparmio energetico (a Dubai ogni persona che vi risiede produce in media più di 44 tonnellate di CO2 all’anno), il presidente di Palazzo Versace, Soheil Abedian ha risposto semplicemente che questo è il tipo di lusso che pretende la gente ricca.
Solo attraverso la follia, intesa come sublimazione dell’irrazionale e ricerca di una dimensione metafisica è forse possibile comprendere il senso di un’immensa proiezione onirica quale la città di Dubai. Enormi risorse energetiche e monetarie dissipate nell’utopistico tentativo di sovvertire tutte le leggi della natura, inseguimento dello spreco vissuto come elemento di esclusività, spasmodica ricerca di una grandezza solo esteriore, nel velleitario tentativo di sottrarci alla nostra inesorabile condizione di piccoli uomini che stanno distruggendo l’unico pianeta sul quale possono vivere.
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Marco Cedolin
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"La coda del cane" di Roberto Buffagni (2)
“Tucc i can i tran la cuaTucc i cojon voen di’ la sua”.
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La storia della questione morale
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Italiani, stiamo morendo: un po’ di serietà, perdìo! E basta con le pose, per la madonna, basta, basta! Un cincinino di sincerità, cosa ci vuole? Sul letto di morte dell’ASL, coi tubi su per il naso e su per il culo, i parenti che cominciano a litigare per l’eredità e il portantino che ci frega il Rolex dal comodino, ci vuole tanto a dire due parole vere? A fare una faccia che per una volta, per una volta almeno, sia la nostra?
Sia chiaro: non pretendo le parole di saggezza, i motti celebri, le epigrafi già pronte per lo scalpellino. Mi va benissimo anche il Perotti di Amici miei che si confessa in articulo mortis al goffo pretino e gli fa la supercazzola: c’è una dignità formidabile, un’innocenza solenne, nella fedeltà all’indecenza di tutta una vita.
Ragazzi, quante balle abbiamo sparato, quante cantafavole abbiamo contato su, quanti torroni abbiamo menato, in questi ormai quasi centocinquant’anni di – si fa per dire, così alla buona – vita unitaria!
Che sollievo, che respiro a pieni polmoni, che ossigenazione dell’emoglobina sarebbe, sentire uno dei nostri Dirigenti d’Ogni Tipo che dice cinque frasi sincere (se possibile, di fila, senza errori di grammatica e non alle tre del mattino) in televisione!
Lo so, poveri cari, non siete più capaci. Dai e dai, un giorno dopo l’altro, prima molto lentamente poi tutto d’un tratto, a forza di raccontar(vi) e raccontar(ci) delle baggianate, dentro la nebbia oleaginosa e dolorante che solete denominare, alla bisogna, “la vostra coscienza” (bùm!), è successa una cosa buffa. Prima la verità c’era. La usavate pochissimo, ma c’era, e la sentivate senza bisogno di toccarla, come si sente il peso di un oggetto nella tasca della giacca anche senza infilarci la mano. Poi, un bel giorno, to’! Non c’era più, diobono! Voi no, ma io me ne sono accorto subito, che l’avevate persa. Volete sapere come? Magari gratis? E io non ve lo dico. Troppo comoda, cari miei! Scopritevelo da soli!
Non ve ne siete accorti quando è sparita, ma adesso ve ne accorgete, eh, cocchi di mamma? Eh, sì: proprio adesso, che avreste bisogno della verità per raccontare a voi medesimi e al popolo tutto delle balle superbe, delle frottole maestose, delle fandonie folgoranti, tàcchete che non ci riuscite più, e venite fuori con delle bugiole lamentose, delle favolette moscie, delle menzognucce viscide, indegne della grande tradizione della balla italiana [marchio registrato], famosa nel mondo.
Perché vedete, cari: per raccontare bene le bugie, bisogna sapere la verità, e voi non solo non la sapete, ma non la riconoscereste neanche se vi si infilasse senza velo od ombra, ignuda e bella, sotto le lenzuola (se mai vi capitasse, i riflessi condizionati a disposizione del vostro corredo genetico sarebbero due: o chiamare la guardia del corpo, o chiederle quanto vuole per un pompino).
Non ce la fate, è inutile. E allora vi aiuto io, dai. In fin dei conti, siamo sulla stessa barca, la barca affonda, i pescecani sono già lì che sgranocchiano le noccioline e degustano le olivette con lo stecchino, sorseggiando il Campari…insomma, non me la sento di chiuderla così, questa nostra storia. Per squallida e ridicola che sia stata, è la nostra storia, la storia d’Italia: “nostra”, capite? E “storia”. E “Italia”.
Ve la ricordate ancora, questa paroletta? Ve lo mette ancora, un brividino nella schiena? A me, lo confesso: sì. Che ci volete fare? Quando la sento, tra i ricordi del libro di lettura delle elementari (la piccola vedetta lombarda! umberto biancamano! curtatone e montanara! Il tessitore!) le medaglie del nonno (d’argento al Valor Militare! Valore, coglioni! Militare, buoni a nulla!) la lapide dell’avo (martire, nullità! per la libertà della Patria, leccapiedi!) e gli innocenti, torridi sogni erotici da me sognati mentre leggevo, a tredici anni, della Pisana (è un personaggio delle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, analfabeti, caproni!) mi si galvanizza ancora, malgré moi, il midollo spinale.
E allora va bé, vi do una mano, brutti stronzi. Vi metto giù la falsariga per qualche frasetta di verità che potreste dire in pubblico (anche solo in un parchetto cittadino, in un cortile condominiale, nell’atrio di un cinema) se voleste – chissà, mai mettere limiti alla Provvidenza – morire come degli uomini, invece di crepare come delle blatte.

Falsariga 1:
“L’ottusità del paese ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto.”
Falsariga 2:
“Sono anni che tradisco me stesso, dubito e mi indigno tacitamente, cerco ogni tipo di scuse per addormentare la mia coscienza. Tutti noi, soprattutto la classe dirigente, conduciamo una vita doppia se non tripla: pensiamo una cosa, ne esprimiamo un’altra e ne realizziamo un’altra ancora.”
Falsariga 3:
“Nessun nemico avrebbe potuto conseguire quello che abbiamo conseguito noi con la nostra incompetenza, ignoranza e autoincensamento, con il nostro separarci dai pensieri e dai sentimenti della gente comune.”

Adesso basta, non esageriamo, Arrangiatevi un po’ da soli, per una volta. Ah: e siccome io a gente come voi, gratis non do niente perché si regala solo a chi si stima, vi segnalo che le tre falsarighe non sono farina del mio sacco. Le ho copiate, come fate voi nei concorsi, nei discorsi, nei vestiti, nelle donne, nelle facce, nelle vite.
I veri autori sono:
Falsariga 1: N.I. Ryzkov, segretario e capo del Dipartimento economico del Comitato centrale con Ju. I. Andropov e K.U. Cernenko, poi primo ministro con M.S. Gorbacev.
Falsariga 2: E. V. Jakovlev, giornalista, ambasciatore dell’URSS in Canada, poi collaboratore di M.S. Gorbacev
Falsariga 3 : Markus Wolff, capo dei servizi segreti della D.D.R.

Invece di faticare – ma quando mai? per la vostra bella faccia?! - per trovarle nelle fonti originali, le ho borseggiate dal seguente libro, neanche comprato ma preso a prestito in biblioteca: Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, Il Mulino, Bologna 2008.
Se volete delle verità mie autentiche, prima bonificatemi € 500 a cartella, cialtroni (poi vi mando la fattura, ci crediate o no le tasse le pago). Beneficiario, Roberto Buffagni. Codice IBAN IT91 S030 6912 9036 1529 7951 407. Ci vediamo all’altro mondo, cretini.
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Roberto Buffagni

lunedì 22 dicembre 2008

Speciale: Dire di no alla vita...

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Post di Cloroalclero, Gambescia (con un'intervista al dottor Adriano Segatori, psichiatra e psicoterapeuta)

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Le vittime suicide del paese degli avvoltoi
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di Barbara (Cloroalclero)
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Poche sono state le notizie della stampa "mainstream" circa il suicidio di due hostess dell'Alitalia, cui in seguito alla cessione a CAI, era pervenuta la lettera che comunicava loro la cassa integrazione.
I
blogger invece sono stati colpiti da questa notizia, anche se nessun particolare sulla vita di questa donne veniva fornito dai media nazionali, di solito così avidi di risvolti personali delle vicende dolorose. Due donne di cui si sanno le iniziali dei nomi e la loro età, senza conoscere null'altro particolare della loro vita che si sono tolta, impietosamente, dopo aver appeso della cassa integrazione.
In questi casi il giudizio medio della gente è "sì, certo. Questa notizia non le ha aiutate,
ma le due suicide erano sicuramente due pazienti depresse". La comunicazione-nella
dimensione del "si" avrebbe detto Heidegger- soffre in questi casi di una "pubblica mancanza di coraggio" che trova la sua compensazione comunicazionale nella sfera della maldicenza. Perché il pregiudizio sociale è "Ci SI suicida perchè SI è malati di depressione". Solo in privato (e, ripeto, nella sfera della maldicenza) si osa dire: "le due hostess sono state uccise da XY (il capo del personale, il direttore, l'amministratore delegato, il sindacalista, il ministro...)
che ha voluto mandarla proprio a loro la lettera di cassaintegrazione" .
La comunicazione "media"si muove dunque tra due sfere: quella del pubblico e quella dello "strettamente privato" dove ci si puo' permettere la maldicenza.
Il versante del "pubblico" nega completamente un ruolo decisivo alla lettera di cassaintegrazione come causa del suicidio. In quello privato
si dà la colpa a persone precise, invidiose, intolleranti, odiose, che "ce l'avevano" con le vittime.
Né l'uno né l'altro approccio al fenomeno di questi suicidi prende in esame il dato fondamentale: l'essere 40enni delle signore (l'avere quindi investito molto della propria vita nel lavoro, una 20ina d'anni, almeno), l'avere presumibilmente altri carichi esistenziali dovuti alla particolare fase della vita (i 40 non sono uno scherzo) da affrontare e minori energie di prima, la totale mancanza di solidarietà da parte delle "voci sociali" quali possono essere
per esempio i media e la carta stampata. Che costruiscono intorno un ambiente stupidamente competitivo e individualista, capace di gridare verso una categoria di persone (le hostess, che sono in fondo "cameriere" sugli aerei) attribuendo loro
una ridda di privilegi che a uno sguardo piu' approfondito non si scoprono esattamente così appetibili.
Nella nostra società è radicata l'idea del "suicidio come esito di una malattia". Spesso si addebita anche al suicida la "negligenza" (colpevole) di non essersi fatti curare per tempo. L'indifferenza del sistema sociale alle vicissitudini esistenziali di coloro che "sono colpiti" da cassaintegrazione e licenziamento, anzi l'imperversare di campagne sottoculturali e mediatiche contro una presunta "fannulloneria privilegiata" di certe "deboli ma numerose" categorie sociali, dalla comunicazione
propria della medietà non viene proprio presa in considerazione.
Il dato interessante è che la dimensione del "SI" (che
Heidegger indicava come il dominio della "chiacchiera", della "curiosità" e dell'"equivoco") è intrinsecamente reazionaria. E' una forma di
comunicazione umana che, a prescindere dalle sfere (pubblica o privata) in cui viene fruita,
non mette mai in discussione il sistema sociale dominante:le cause di un suicidio sono: o "la malattia", o le persone singole,responsabili direttamente in quanto "cattive" invidiose o "vendute". . Mentre i mass media occultano o distorcono informazioni che potrebbero generare nell'opinione pubblica anche solo il sospetto di essere ingannati o abusati, la dimensione privata viene vissuta e percepita dalla media della gente come una paturnia personale piu' o meno "grave", completamente impermeabile a contenuti politici.
In una società che fa dei debiti necessari al consumo e della competitività i significati supremi del vivere e dell'interagire umani, possiamo dire che non è stata nè una malattia nè il frutto di un dissidio personale sul lavoro, il suicidio di queste due ragazze.
Il suicidio è frutto, al di la di ogni concezione "patologistica", della disonorevolezza. In Giappone i
politici corrotti ricorrono spesso a questa prassi, quando scoperti.
Anche in Italia recentemente si è
suicidato un politico, temendo il disonore.
Ma il disonore pubblico ha come determinazione il "disonore privato":
l'improvvisa scoperta della scarsa qualità del tempo che si è dedicato ad un'impresa o a un'attività. Potremmo definire il disonore come "il sentimento della perdita di qualità della propria vita" percepito a livello pubblico e privato.
Anche le hostess si sono suicidate per "disonore", ma non perchè si sono asservite a un faccendiere o si sono fatte corrompere dai camorristi e sono state scoperte. Hanno semplicemente lavorato nella compagnia sbagliata. I cui dipendenti di sono visti messi alla gogna pubblica prima dai mass media e poi è arrivata (a moltissimi di loro) la lettera di cassa integrazione (preludio, spesso, al licenziamento).
In uno scenario necrotico, le due donne si sono trovate a svolgere il ruolo delle ossa di una carogna spolpata dalle jene e dagli avvoltoi.
E, in tutta questa "bad company" di economia demenziale hanno sperimentato il disonore di essere tra gli scarti della società.

.Cloroalclero