sabato 29 novembre 2008


Capitalismo, caos e disordine
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di Truman Burbank
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Il capitalismo pisciò
A volte può essere utile il linguaggio dei ragazzini per spiegare concetti solo apparentemente nuovi.
Una possibile lettura dell’attuale crisi economica è che il capitalismo abbia pisciato in quella che sembrava essere la fase di passaggio dal livello statale a quello globale, cioé ha fatto “psccc...” come una bombetta natalizia che parte per esplodere fragorosamente ed invece si smorza ignominiosamente.

Se il capitalismo ha fallito il salto di scala, la realtà globalizzata resta.
Adesso alcuni autori stimati (per esempio Prem Shankar Jha) preannunciano il caos sistemico, una incontrollabile instabilità che provocherà molti danni. Conviene ritornare sul concetto di caos, su cui avevo già scritto.(1)

La regolarità del caos
Il caos può anche essere visto come un concetto tecnologico: ciò che è troppo complesso per essere calcolato viene denominato caos. Ma il caos non è necessariamente del tutto caotico e mantiene spesso degli aspetti ripetitivi.

Il caos di Rubik
Un cubo di Rubik ordinato può essere trasformato con poche mosse in un cubo che per un profano ha un aspetto caotico: ogni tentativo di riportare ordine localmente appare aumentare l’entropia globale, ogni stato di parziale ordine viene sconvolto quando si tenta di estendere tale ordine, quando si tenta di portarlo ad un livello più elevato.
La sensazione che si prova è deludente e sconcertante.
Chi conosce le regole del cubo sa però che esso non è mai caotico, che le combinazioni possibili, per quanto enormi, sono limitate e che in un numero relativamente ridotto di mosse si può tornare all’ordine. Chiaramente serve un’attenta analisi dello stato iniziale per capire le mosse da prendere.
Anche un profano intuisce comunque che è un problema di metodo più che di caos.

Se si tratta di disordine più che di caos, mi torna in mente Mao Tse Tung: “Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione è eccellente”.
Allora nelle situazioni molto disordinate chi sa trovare delle regole può essere molto avvantaggiato sugli altri.

Mi torna anche in mente Georges Simenon, il quale fa dire a Maigret in un momento di difficoltà “I casi della vita sono infiniti, ma le regole in base alle quali si muovono gli uomini sono abbastanza limitate e sono sempre le stesse” (citazione a memoria da “Maigret a New York”).

Il caos di Sacks
Sul caos riguardavo di recente “Risvegli” di Oliver Sacks, il libro in cui il grande neurologo raccontava il risveglio dalla malattia del sonno tramite L-dopa.
Un aspetto interessante di Risvegli è lì dove Sacks studia le teorie dei sistemi caotici per cercare un rimedio all’estrema instabilità delle cure con L-dopa. In lui viene prima l’esigenza pratica e poi la ricerca teorica.
Ma ho la sensazione che gli sarebbe stato più utile un buon manuale sui sistemi dinamici non lineari che troppe chiacchiere sul caos. Avrebbe forse trovato che la reazione alle cure era analoga ad un’isteresi.
La difficoltà occidentale a capire i fenomeni non lineari viene probabilmente dalla tendenza a cercare i componenti più che la Gestalt.
- Alcuni credono che ciò che non ha andamento lineare sia caotico.
- In generale ciò che non è lineare viene capito con difficoltà.

Quando ci si trova di fronte a fenomeni non lineari bisogna prima classificarli. Per fare ciò è necessario individuare la loro Gestalt, la loro tipologia. Poi si può modellizzare e tentare di descrivere matematicamente.
La descrizione delle non linearità può seguire dei cicli ed avere bisogno di uno stato interno, per esempio ciò avviene nei fenomeni di isteresi.
Altro errore comune è il voler linearizzare, il sostituire un andamento lineare a quello reale per comodità di studio: ha senso (in un certo intorno) linearizzare la curva di un transistor, ma non ha senso linearizzare un’isteresi.
Serve considerare il tempo e l’energia, può essere utile un concetto di stato interno.
Insomma servono solitamente piani di analisi aggiuntivi e la soluzione è su un piano diverso da quello lineare /linearizzato.

La realtà si dimostra quasi sempre più ricca (più complessa) di ciò che vorrebbero i nostri principi di economia mentale. Chi non lo sa ricade facilmente nel vizietto dell’investigatore.

E se non servissero grandi teorie?
Tornando a Prem Shankar Jha, egli sembra parlare di grandi teorie necessarie per gestire un mondo globalizzato, mentre a me viene il dubbio che servirebbe solo un po’ di verità in più, del tipo “il mercato spiega poche cose”, “il liberismo era un imbroglio” e così via. Proviamo a ricostruire la verità.
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Truman

venerdì 28 novembre 2008

Post di Carlo Gambescia e Kelebek
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Le tre anime della sinistra
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di Carlo Gambescia
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Prendendo come punto di riferimento il 1977, possiamo suddividere la sinistra italiana in tre anime.
All’epoca da una parte vi erano i riformisti (in senso classico, con propensioni socialdemocratiche, ma largamente minoritari) e dall’altra i rivoluzionari (sempre in senso classico, anch’essi minoritari). E in mezzo una zona grigia, maggioritaria, né rivoluzionaria né riformista, diciamo continuista: nel senso di un politica rivolta alla costruzione del socialismo, attraverso una via italiana, capace di coniugare riforme e rivoluzione. All’estrema destra dei riformisti, il Psi di Craxi. All’estrema sinistra, i cosiddetti gruppi più radicali e movimentisti, come l’area dell’autonomia, che definiamo leninisti, per semplificare.
Ora, che cosa è successo alle tre anime negli ultimi trent’anni?
I riformisti sono stati risucchiati dal riformismo liberale ( e in questo senso la sfida degli anni Ottanta è stata vinta post mortem da Craxi). Quella che era l’anima amendoliana del Pci oggi è rappresentata da Fassino, D’Alema, Veltroni, pur con sfumature diverse (più comportamentali che ideologiche). Anche perché questi leader si muovono tutti nell’alveo di una visione della politica fondata più sulla promozione collettiva dei diritti civili che di quelli sociali. Nonché di un sostanziale atlantismo in politica estera, al quale si affianca il liberismo (certo non estremo) in politica economica.
I continuisti (quelli che come Berlinguer, ispirandosi alla tradizione togliattiana, aspiravano a coniugare riforme e rivoluzione), sono rappresentati dall’area a sinistra del Pd, quella fortemente penalizzata alle ultime elezioni. Si tratta di un universo politico, “in grigio”, ancora oggi sospeso tra governo e lotte sociali (emblematiche, ad esempio, le due figure opposte di Vendola e Ferrero… ). Ma in realtà indeciso su tutto. Un universo che, al tempo stesso, rifiuta il riformismo liberale ma teme la rivoluzione, perché si professa non violenta. E che in pratica vive alla giornata. Trovando, di volta in volta, punti di contatto con i riformisti sul problema dei diritti civili. Ma non su quello della politica estera ed economica.
I rivoluzionari, sono oggi rappresentati dai movimenti. Per usare un immagine - suggestiva ma imprecisa - si tratta di gruppi politici sospesi tra Lenin, Gino Strada. Tra la lotta sociale a sfondo antiatlantista e antiliberista e l’irenismo eroico, ma impolitico, del soccorso sociale ai popoli di tutto il mondo. In quest’ultimo senso si può parlare di rivoluzionarismo come tendenza a risolvere i problemi politici attraverso rivoluzioni sociali, o più spesso manifestando, in buona fede, propositi rivoluzionari. Senza valutare l’eventuale prezzo da pagare.
Dal punto di vista della chiarificazione ideologica sperare in un’ evoluzione dell’intera sinistra in senso socialdemocratico è ormai praticamente impossibile. Dal momento che le socialdemocrazie europee si sono da tempo trasformate in partiti liberalriformisti (si pensi all’involuzione della socialdemocrazia tedesca). Mancano quindi referenti ideologici, alleati e appoggi concreti. Purtroppo, la fase socialdemocratica è stata a suo tempo saltata (per ragioni sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi). E ormai tornare indietro è impossibile. Il treno è passato. E ora la sinistra - ripetiamo, piaccia o meno - può salire solo su quello del riformismo liberale. Restano il continuismo e il rivoluzionarismo, tra i quali neppure scorre buon sangue. Ma anche per essi è difficile immaginare una evoluzione positiva.
Il continuismo è ancora troppo legato a ritualismi sindacali e patti ed alleanze (spesso sul piano locale) difficilmente rescindibili in modo indolore, soprattutto sotto il profilo della possibile perdita di risorse economiche, e dunque di potere.
Il rivoluzionarismo, se dovesse optare definitivamente, semplificando, per Gino Strada, non avrebbe più alcuna speranza. Non potrebbe che restare decisamente impolitico. Ma anche l’opzione leninista, in circostanze storiche molto diverse da quelle della Russia zarista, potrebbe essere assai pericolosa per la democrazia. Inoltre la pregiudiziale antifascista, certo storicamente giustificata, che anima i seguaci sia di Lenin che di Strada, impedisce ai rivoluzionari di intercettare importanti fasce di emarginazione sociale e politica.
Inoltre, come conciliare la fuoriuscita dalla Nato con il pacifismo? Gli Stati Uniti porrebbero l’Italia, una volta fuori della Nato, sullo stesso piano di uno “stato canaglia”. Di lì la necessità di battersi, o comunque di dover trovare, nel probabile isolamento europeo, altri alleati, tra paesi invisi agli Stati Uniti, oppure rischiare di trasformarsi in stato-vassallo di eventuali alleati (ma quali? La Russia di Putin, amica di Berlusconi?). Insomma, le cose sono molto più complicate di quanto ritengano, certo in buona fede, i rivoluzionari..
A meno che, come talvolta capita nella storia, la situazione economica, già compromessa, precipiti rimettendo in gioco tutto…
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Carlo Gambescia
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di Miguel Martinez (Kelebek)
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Questo orrore mi era sfuggito, anche se sicuramente la maggioranza dei lettori ne sarà al corrente.
A Villafranca Padovana, il sindaco, la signora Beatrice Piovan dell'Udc, ha chiesto alle scuole di saltare un giorno di lezione per festeggiare la pugnalata alle spalle che il governo italiano - senza consultare il proprio parlamento - commise ai danni dell'impero austroungarico; l'uccisione di seicentomila italiani per ordine dello stesso governo, nonché di un numero imprecisato di austriaci, ungheresi, croati e sloveni; le decimazioni dei militari che si rifiutavano di uccidere e di farsi uccidere; la prigionia di 600.000 italiani in condizioni tremende, considerati in blocco "disertori", con tanto di sequestro dei beni dei loro familiari e processi di massa; il furto di terre non italiane, o che comunque non avevano alcun desiderio di finire sotto l'Italia. E una battaglia, quella di Vittorio Veneto, vinta con tonnellate di gas iprite francese, contro un nemico il cui stesso stato si era dissolto alcuni giorni prima.[1]
A questa apologia di crimini contro l'umanità, il sindaco affiancava un alzabandiera (ricordiamo che il Veneto fu regalato dalla Prussia nel 1866 a un'Italia sconfitta), una messa (sì, c'era anche un prete per celebrare quella che Benedetto XV definì "l'inutile strage") e - a dispetto di ogni cronologia - pure una cerimonia in onore degli occupanti italiani uccisi in un'azione di resistenza in Iraq. Quelli che avevano come motto, "Luca annichiliscilo!" [2]
Il consiglio dell'istituto comprensivo di Villafranca Padovana
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"non ha deliberato l’interruzione delle attività didattiche per far partecipare tutta la scuola alle celebrazioni (non ritenendo neppure opportuno imporre un rito religioso cattolico agli studenti non cattolici della scuola), ma è stata lasciata libertà di scelta, tanto che sette – quattro terze medie e tre quinte elementari – hanno comunque deciso di prendere parte alle iniziative".
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Conseguenze di questa mitissima presa di non posizione?
Prima di tutto, sono arrivati alla scuola i carabinieri.
Poi il sottosegretario all'ambiente (?) ha chiesto la rimozione della direttrice scolastica.
I giovani di Alleanza Nazionale hanno tappezzato la scuola di bandiere tricolore.
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha mandato un ispettore; e se interpreto le parole poco chiare del Mattino di Padova, persino la Cgil, la Cisl e la Uil hanno chiesto le dimissioni della direttrice scolastica.
Poi, come probabilmente sapete, è intervenuto anche il ministro della difesa Ignazio La Russa. Un signore che conosciamo per prodezze poco militari, ad esempio alla discoteca Twiga dove il Vieux Fasciste fa il cretino tra le Jeune-Fille:
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"Difficile fare una lista dei personaggi famosi che fanno tappa al Twiga. Facendo una violenta sintesi possiamo ricordare Aida Yespica, Alba Parietti, Elena Santarelli, Eleonora Pedron, Emilio Fede, Eros Ramazzotti, Ignazio la Russa, Marco Balestri, Marco Predolin, Stefano Masciarelli, Susanna Messaggio ed infiniti altri.La discoteca Twiga rappresenta un must nelle calde estati della Versilia ed è meta assolutamente imperdibile per chi ama giornate all'insegna del lusso in mezzo alla clientela più "in" che si possa trovare in Italia".
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Ignazio La Russa non ha combattuto né a Vittorio Veneto né a Nassiriya; ma in compenso ha condotto una dura lotta contro la polizia di Milano, in difesa del diritto dei proprietari di discoteche a turbare l'ordine pubblico.
Scrive una lettrice di Repubblica: "Sono stata ai Navigli, c' erano anche gli onorevoli Ignazio La Russa e De Corato. Ho cortesemente chiesto al dottor La Russa cosa intendesse fare contro il disturbo alla quiete pubblica causato dalle discoteche. La risposta è stata: «Si metta il cotone nelle orecchie signora".
Ma, come dice De Andrè,
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Spesso gli sbirri e i Carabinieri
al proprio dovere vengono meno
ma non quando sono in alta uniforme
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A Villafranca, per affermare tutta la potenza del governo contro la scuola timidamente insubordinata, Ignazio La Russa è andato di persona.
Estorcendo, peraltro, il pubblico pentimento della direttrice didattica peccaminosa, che pare abbia acconsentito a celebrare il massacro.
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Miguel Martinez (Kelebek)
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[1] L'uso dei gas tossici in guerra fu introdotto dai tedeschi, ma imitato con entusiasmo dagli italiani. Segnaliamo tra le imprese che hanno mostrato più patriottismo in questo campo la Società Elettrochimica Italiana, lo stabilimento di Rumianca dell'ingegner Vitale, la Società Italiana Prodotti Azotati, la Società Elettrochimica Pomilio, gli stabilimenti Caffaro di Brescia, la Società del Cloruro di Calce di Collestatte, la ditta Candia e Solona di Milano, nonché l'Istituto di chimica farmaceutica e tossicologica dell'università di Napoli del professor Arnaldo Piutti che, a differenze del suo collega tedesco, il dottor Mengele, si è guadagnato anche l'onore di una strada a Udine. Per chi fosse interessato ad approfondire l'argomento: Filippo Cappellano, Basilio Di Martino, La guerra dei gas. Le armi chimiche sui fronti italiano e occidentale nella Grande Guerra, Gino Rossato Editore, Novale, 2006.
[2] Preciso che non considero delinquenti i ragazzi che a vent'anni decidono di arruolarsi tra i parà o altrove e che in situazioni di stress usano le armi che altri hanno messo loro in mano. Delinquente è chi ce li manda.

giovedì 27 novembre 2008

Post di Marco Cedolin e Cloroalclero
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Carta oro
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di Marco Cedolin


La distanza fra la politica ed i cittadini continua a farsi sempre più siderale, probabilmente dipende dal fatto che gli uomini politici una volta assurti agli sfarzi delle logge del potere hanno in tutta fretta dimenticato come vivono le persone normali o più semplicemente è da imputare al fatto che la politica ha ormai raggiunto un tale livello di autoreferenzialità da avere perso ogni residuo contatto con il mondo reale.
Sul finire di questo freddo novembre, mentre già le festività natalizie s’intravedono all’orizzonte ed i governi occidentali continuano a regalare miliardi alle banche (da sempre le aziende con più alta redditività al mondo) mentre si propongono di fare altrettanto con la disastrata industria automobilistica, seguendo le orme di quel vero simbolo del mercato liberista che sono gli Stati Uniti, anche in Italia il governo è in piena attività. Si è appena provveduto a donare Alitalia alla cordata d’imprenditori di rapina capeggiata da Colaninno, ma il vero obiettivo è costituito dal fronteggiare la crisi finanziaria e rinfocolare i consumi di Natale che sembrano in procinto di essere fagocitati dalla recessione.
Dopo il disastro della scuola di Rivoli, il cui soffitto è crollato in testa agli studenti, uccidendo un ragazzo di 17 anni e ferendone altri 20, Guido Bertolaso ha reso noto il drammatico stato in cui versano gli edifici scolastici italiani, affermando che occorrerebbe un investimento di 13 miliardi di euro per metterli in sicurezza. Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che della tragedia di Rivoli non si è curato minimamente, ha annunciato con il sorriso sulle labbra di avere stanziato 16 miliardi di euro, non per evitare che le scuole crollino ammazzando gli studenti, bensì per costruire grandi opere, nella fattispecie (come da lui affermato) trafori alpini attraverso i quali convogliare il traffico merci che nei prossimi anni a causa della recessione aumenterà sicuramente a dismisura.
Il ministro Tremonti ha invece occhi solo per le famiglie e proprio ieri ha presentato alla stampa la “Social Card”, una sorta di carta di credito prepagata destinata a 1.300.000 italiani e contenente 120 euro da spendere negli esercizi commerciali convenzionati. La carta verrà ricaricata mensilmente di 40 euro dalla generosità dello Stato e potranno fruirne i cittadini ultra sessantacinquenni e le famiglie con figli piccoli (fino a 3 anni) che abbiamo un reddito fino a 6000 euro, non più di una casa e non più di un'auto. Senza entrare nel merito dell’entità dell’aiuto di Stato che sembra piuttosto misera per rivelarsi propedeutica all’incremento dei consumi e al mezzo con cui si è ritenuto di veicolarlo, non si può evitare di mettere in evidenza come il metro usato per aiutare i “poveri” non risulti assolutamente equilibrato, dal momento che tutti i disoccupati a reddito zero, senza figli o con figli grandi non usufruiranno neppure di questa elemosina.
Peggio di Tremonti sarebbero comunque riusciti a fare il PD e la CGIL che preferirebbero aiutare le famiglie più povere detassando le tredicesime, dimenticando che in Italia i più poveri, disoccupati e precari, la tredicesima non sanno neppure cosa sia.
Affrontare il profondo malessere economico che attanaglia le famiglie italiane, con carte di credito, una tantum e offerte promozionali è un po’ come prendere il mare in una giornata tempestosa a bordo di un materassino, con la speranza che la prima onda ci ributti a riva sul bagnasciuga anziché affogarci. Gli italiani che sono in sofferenza economica (tutti gli italiani che sono in sofferenza economica) non hanno bisogno di qualche elemosina formato “mastercard”, bensì di un reddito continuativo che consenta loro di vivere con dignità, di progettare un futuro, di non sentirsi al margine della società.
In un’Italia dove l’emorragia occupazionale sta crescendo a dismisura non servono a nulla le carte di credito modello Tremonti e meno ancora l’elemosina mirata a coloro che percepiscono la tredicesima, come gradirebbero la sinistra ed i sindacati.Occorre creare nuove opportunità di lavoro, magari indirizzando i 16 miliardi stanziati a favore delle grandi opere della mafia del cemento e del tondino (il settore che in assoluto genera il minore ritorno in termini di occupazione) per ristrutturare gli edifici scolastici e liberarli dall’amianto, magari procedendo a ristrutturare, nell’ottica di accrescere la loro efficienza energetica, il patrimonio immobiliare, magari riconvertendo quell’anacronistico dinosauro che è l’industria automobilistica alla costruzione di microcogeneratori per l’autoproduzione energetica, magari procedendo alla bonifica delle aree inquinate dai rifiuti tossici di provenienza industriale.
Le occasioni certo non mancherebbero, quello che manca è purtroppo una classe politica che possieda una minima consapevolezza della realtà che la circonda e sappia affrancarsi, almeno un poco, dal suo ruolo di “cameriere” dei grandi poteri che ne gestiscono l’operato.

Marco Cedolin
Liberazione esulta per la vittoria di Vladimir Luxuria




Viene voglia di bestemmiare leggendo queste cose su Liberazione e l’eco che fanno a simili elucubrazioni le decine di blog sul tema. :-)
“Forza Vladimir hai vinto tu” dice Liberazione, ravvisando nella vittoria di Vladimir Luxuria all’isola dei famosi un importante risultato avente valenza politica.Per quel che mi riguarda, straquoto il blog di Candido che in poche parole esprime ilmio pensiero (copioincollo):

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"Questa che vedete qui sopra è la prima pagina di oggi del giornale COMUNISTA Liberazione. Ora dico io, con tutte le notizie possibili da pubblicare si puo dedicare una mezza prima pagina alla vittoria di una persona in un reality show? Ebbene si, il giornale “vendoliano” diretto da Piero Sansonetti, dopo la richiesta di grazia per Anna Maria Franzoni riesce ancora a stupire. Che Vladimir Luxuria sia stata deputata del Prc e che tuttora faccia parte del partito, che rappresenti un mondo (quello dei transgender) ancora poco conosciuto ed anche ghettizzato, non giustifica una simile presa di posizione. Di Vladimir Luxuria si dovrebbe parlare nel caso in cui si renda portatrice di proposte concrete e non per una sua partecipazione ad una trasmissione televisiva.
E poi si chiedono perché han preso il 3% alle scorse elezioni?"
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Ma veramente: piu’ di tante analisi e controanalisi fatte a tavolino e nelle riunioni, questo fatto riassume con la piu’ cristallina chiarezza il perchè ci troviamo in ’sto mare di merda con Berlusconi che in molte parti d’Italia, presso innumerevoli persone è acclamato come un dio.
Sorge nel mio animo complottista un pensiero: che tanta idiozia, tanto trash mentale, tante considerazioni che oscillano tra il banale e lo stupido non siano casuali, ma progettate a tavolino con chi è complice con quello stesso potere che scorreggia cazzate per bocca di Berlusconi o di Simona Ventura che, pur lavorando in contesti diversi, esprimono gli stessi significati.
Perchè non è possibile che quella medesima sinistra che comprende (giustamente)
chi esprime le necessità dei transgender, dei gay,lesbiche ecc..che l’ha per ben due volte presa nel gnicco prima con i PACS e poi con i DICO oggi si dica entusiasta per l’esito dell’isola dei famosi.
Siamo messi veramente male come cittadini italiani se chi esprime le istanze reali di questo paese, di tutti i componenti di questa nazione, esultano accontentandosi di un’elemosina del genere dal potere. Se ravvisano in Simona Ventura una mente interessante che puo’ portare avanti la civiltà italiana e sa come farlo. Mi sembra così paradossale e deviante questa convinzione che il mio cervello la rifiuta. Non puo’ essere. C’è un complotto. E forse quest’induzione alla paranoia di chi ci riflette sopra è anch’essa voluta.
Non mi escono altre parole che non comprendano il turpiloquio. Ma una cosa ve la voglio dire, o voi che non condividete il mio stato d’animo: avete memoria corta.
Perchè quando, col governo Prodi Vladimir
Luxuria, insieme a tutta una serie di deputati del PD, dette il voto italiano a favore degli interessi del Vaticano e si adoperò favorevolmentequando si trattò di esentare gli immobili di proprietà della chiesa, usati anche per scopi di lucro (librerie ecc..) dall’ICI mentre ancora tutti la pagavano, quest’episodio, dicevo, non ve lo ricordate.
Nè mi par di ricordare che Luxuria abbia avuto un atteggiamento pur minimamente polemico col
governo Prodi sulla questione dei rifinanziamenti militari.
E come aveva fatto scrivere il reverendo Jones sul cartello che accoglieva i visitatori a Jamestown, in Guyana,: “chi non ha memoria, non ha futuro“.

P.S. Il reverendo Jones non l’ho ricordato solo per la scritta su questo cartello.


Cloroalclero

mercoledì 26 novembre 2008

Post di Nicola Vacca e Truman Burbank
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Il nichilismo che fa paura
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di Nicola Vacca

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Quatto giovani bruciano un senza tetto perché volevano divertirsi. Che cosa hanno nella zucca questi ragazzi di oggi? Il vuoto assoluto. Crescono senza prospettive, educati male. Ma soprattutto non hanno rispetto per nulla e per nessuno. Se oggi quattro “bravi ragazzi” per ingannare il tempo bruciano vivo un uomo, forse qualcosa non va in questa società malata nella quale la famiglia perde importanza.
Le ragioni di questo grave malessere generazionale vanno senza dubbio ricercate nell’assenza totale di modelli educativi. Manca la famiglia, manca la scuola, mancano i valori etici sui quali dovrebbe fondarsi una società giusta. Nasce un’ intera generazione di zucche vuote, senza un briciolo di ideale, senza una coscienza critica. Mentecatti con l’encefalogramma piatto, dotati di una disumana insensibilità, pronti alla violenza cieca.
Questi ragazzi senza valori vivono da sbandati nella società del malessere: abitano il nulla nel quale crescono. La cosa più triste è che questi giovani sono i figli del nichilismo post-ideologico.
Pasolini nel 1975 scriveva che i giovani di oggi sono estremamente infelici perché assaliti da forme patologiche di nevrosi. Queste nevrosi derivano dalla frustrazione di avere abbandonato i loro valori e i loro modelli, perché gliene vengono proposti degli altri che loro non sono capaci di realizzare.
Se una banda di balordi dà fuoco a un essere umano senza nessun motivo , il problema è davvero serio. Questo nichilismo fa davvero paura.

Nicola Vacca
Back to 1984
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di Truman Burbank

Un nostalgico ritorno ad Orwell

Ripensando ad Orwell ed al suo romanzo 1984 mi resta la sensazione che la situazione da lui delineata fosse più libera di quella che viviamo noi oggi. Oggi che il Grande Fratello è un format televisivo di successo il rileggere Orwell mette un po' di tristezza. Quasi come se egli fosse un ottimista inguaribile.

In 1984 c'era ancora qualche residuo di libertà di pensiero. Ma l’anno 1984 se ne è andato da tempo ed in Europa forse non ci sono più uomini (L'ultimo uomo d'Europa era il titolo provvisorio).

Oggi il tritatacarne dei mass-media è riuscito a sterilizzare anche la severa lezione di 1984 ed invece di un mondo dove la storia viene riscritta viviamo in un mondo senza storia, viviamo l'eterno presente del paese dei balocchi, il paese dei consumatori bambini.

Restano solo degli zombies assetati di merce e di feticci.

Nel romanzo 1984 di Orwell bisognava sorvegliare le persone, serviva un Grande Fratello che spiasse tutti in continuazione per individuare i comportamenti devianti e punirli. Esso era basato sul vecchio paradigma del controllo tipico dell'epoca staliniana. Si controllavano le azioni delle persone, con enorme sforzo organizzativo.

Nella società attuale non è necessario controllare tutti. Le strade sono vuote. Il mondo sta nella TV ed esiste solo chi riesce ad accedere ad essa. Chi non ha visibilità mediatica è come se non esistesse. E' invisibile alle masse, estraneo al mondo. Sotto molti aspetti oggi i devianti vengono puniti facendoli sparire, facendoli diventare invisibili a tutti. E può essere una punizione peggiore del carcere.

Ma nessuno vuole stare fuori dal mondo. Allora per controllare le masse basta controllare i mass-media. Adesso nei colpi di stato si conquista per prima la TV.

Il grande vantaggio (per il potere) del consumismo pompato dai media è poi che esso non lascia alcun tempo libero per riflettere. Eppure Orwell aveva provato a dirlo nel modo più forte possibile che il potere tende a maciullare tutto e che lo spirito critico deve essere sempre vigile. Dopo il fascismo, il nazismo, il comunismo, il nuovo totalitarismo avanza. E spesso riesce pure a celare la sua violenza. Le persone nei posti di comando questo lo sanno bene, ma anche le masse hanno capito parecchio e tutti si conformano ai valori dominanti. Ognuno è controllore di se stesso. La situazione attuale è descritta meglio da Huxley:

"Non esiste, ben inteso, alcuna ragione perché i nuovi totalitarismi somiglino ai vecchi. Il governo basato su manganelli e plotoni d'esecuzione, carestie artificiali, imprigionamenti e deportazioni di massa, non è soltanto disumano, ma provatamente inefficiente e questo, in un'era tecnologica avanza, è un peccato contro lo Spirito Santo. Uno Stato totalitario davvero "efficiente" sarebbe quello in cui l'onnipotente comitato esecutivo dei capi politici e il loro esercito di direttori soprintendessero ad una popolazione di schiavi che ama tanto la propria schiavitù da non doversi neanche essere costretta. Fare amare agli schiavi la loro schiavitù: ecco qual è il compito ora assegnato negli Stati totalitari ai ministeri della propaganda, ai caporedattori dei giornali e ai maestri di scuola". (http://cavallette.autistici.org/2007/05/468 )

Non c'è alternativa, dicono alcuni.

Truman Burbank


martedì 25 novembre 2008

Post di Saccoccio, Binaghi, Bertani
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Crollerà anche il sistema dell'arte
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di Antonio Saccoccio

Con grande gioia abbiamo appreso che anche le grandi case d’asta inglesi risentono della crisi. Sembra che Christie’s e Sotheby’s stiano frenando. Nei giorni scorsi la solita roba di 40-50 anni fa (Freud e, indovinate un po'?, Warhol) ha registrato incassi inferiori alle aspettative. Christie’s ha battuto un Lucian Freud a 5.4 milioni di sterline, Sotheby’s dieci teschi di Andy Warhol per 4.3 milioni di sterline. Ma si aspettavano di più e quindi sono preoccupati.
Philip Hoffman, direttore del Fine Art Fund Group, afferma: "il mercato dell' arte non può essere immune da quello che succede nel mondo della finanza, non c'è liquidità". Ricordiamo che questi mercanti di fumo ultimamente riuscivano a trovare l’imbecille di turno disposto a sborsare anche cifre pari a 50 milioni di euro ad opera. In questo campo in fatto di imbecillità russi e arabi di solito primeggiano. Potrebbe essere l’inizio del loro crollo. Noi ce lo auguriamo. Anche se fino a quando queste deliranti aste non passeranno di moda, il fenomeno non cesserà facilmente. È una moda, e come tutte le mode passerà. Ma a volte può durare più del previsto. Il net.futurismo continua senza sosta la quotidiana lotta contro il grande cancro del sistema dell’arte. È evidente che questo sistema è un sistema di speculazioni economiche e finanziarie. Nulla ha a che vedere con l’arte ed è oggi il principale nemico di ogni presente avanguardia.
L’avanguardia non si vende. Si vive.


Competitività

di Valter Binaghi


Apprendiamo oggi che sulla classifica dell’Economist l’Italia è scivolata al quarantesimo posto per “competitività”, dietro paesi come la Thailandia. La Thailandia è il paradiso della redditività del capitale, il lavoro costa poco e per di più è uno dei paesi al mondo con più alto tasso di prostituzione minorile, probabilmente una voce non di poco conto nel Prodotto Interno Lordo Tailandese.

Certo, siamo poco competitivi. Un operaio intervistato al Tg3, lamenta di essere in cassa integrazione lui, la moglie e il figlio: tutti e tre lavorano in quelle fabbriche tessili della Val Seriana, che stanno chiudendo una dopo l’altra. Ma la cassa integrazione è un buon ammortizzatore sociale: forse per questo siamo poco competitivi.

La multinazionale Motorola, invece, dopo avere convinto il sindaco diessino Chiamparino a investire fior di miliardi di denaro pubblico italiano nella localizzazione del centro di ricerca aperto a Torino, ha recentemente chiuso lasciando a spasso quasi quattrocento ingegneri. Senza cassa integrazione, perchè la Motorola non ha versato agli enti assistenziali, e ai suoi lavoratori la Cassa Integrazione non spetta. Chiamparino non aveva chiesto garanzie? Probabilmente era troppo entusiasta della “competitività” di Motorola per farlo. E questa è un’immagine della sciagurata sinistra Veltroniana i cui disgustosi balletti ci è toccato di assistere: yes we can.

E la destra di governo? Un paese in crisi economica, con strutture pubbliche fatiscenti (scuole che crollano), infrastrutture in meridione che risalgono all’epoca borbonica, chilometri di ferrovie che ancora procedono a binario unico, dovrebbe investire in lavori pubblici e aumentare i salari per liberare i consumi. Non piace ai banchieri? Chissenefrega. Sarebbe il momento buono per recuperare una piena sovranità monetaria e usare il denaro per quello che dovrebbe servire: creare lavoro e benessere. Così non si esporta? Chissenefrega. Sarebbe il momento buono per fare come fece il Giapppone negli anni Ottanta: puntare sul mercato interno e trasformare questo in un paese meno spudoratamente ingiusto, una via di mezzo tra gli stipendi dei call-center e il vergognoso spreco dei frequentatori del Billionaire.

Invece no. Si taglia sulla spesa pubblica, si punta ad abbassare il costo del lavoro, si insegue la capacità di attrarre capitali di posti come la Tailandia.

Competitività. Viene dal linguaggio sportivo: significa concorrere lealmente, su un piede di parità. Non lo sporco gioco al ribasso del liberismo internazionale.

Sono un poveruomo, e tengo pure famiglia, ma giuro che il primo che mi arriva a un metro di distanza e mi parla ancora di competitività lo mando all’ospedale.


Valter Binaghi

Finalmente una buona notizia
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di Carlo Bertani
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Devo confessare che ho provato una stretta al cuore, fissando lo sguardo di quel ragazzo – Vito Scafidi – morto tragicamente nel crollo del soffitto in un liceo di Rivoli. Sarà perché di qualche morte tragica – dopo tanti anni d’insegnamento – sono stato, ahimè, spettatore attonito e ricordo la triste liturgia di quei casi.
Motorino od auto, talvolta una bieca malattia, strappano ai genitori ed a noi insegnanti qualche giovane vita, un paio d’occhi ammiccanti, talvolta sbarazzini, sempre curiosi sguardi d’adolescente.
Il copione è sempre lo stesso: la bara sistemata al centro di una struttura (talvolta a casa o in ospedale) ed una classe tremante che – appoggiata al muro per lunghe ore – piange, consola, ricorda.
La prima badilata sul viso che la vita ti dà è, in certe circostanze, questa: la perdita, repentina, dell’illusione dell’immortalità. A 17 anni non si muore, non si dovrebbe. Eppure avviene.
Poi, mesi per recuperare il salvabile, cercare – nessuno di noi ha magiche ricette in tasca – di metabolizzare l’accaduto, perché la classe è un organismo vero e proprio, complesso, sempre diverso, che quando perde una mano od un piede urla di dolore.
Se, poi, la morte avviene per mano degli adulti – o, perlomeno, così viene percepita – allora…apriti Cielo! Sale la rabbia contro qualcosa o qualcuno – che è tipico dell’adolescenza, sempre ribelle – e quel qualcosa o qualcuno si trasfigura nella perversa Crudelia Demon, nel malvagio Capitan Uncino, nel sanguinario principe Vlad di turno.
Per noi adulti la questione si pone in altro modo. Se scorriamo le statistiche sulla sicurezza nelle nostre scuole, c’è da rabbrividire
[1]: la metà di esse – i luoghi dove inviamo, fiduciosi, i nostri figli – sono luoghi insicuri.
Le testimonianze raccolte dal quotidiano “Repubblica”
[2] fioccano a centinaia, da tutte le parti d’Italia, da destra a sinistra, e cadono tutte sulla testa di questa classe dirigente che, per bocca del Presidente del Consiglio, afferma trattarsi di “fatalità”. Sarà come per gli incidenti sul lavoro? Per le tragedie familiari? Per la povertà endemica? Cosa siamo, un popolo destinato antropologicamente alle tragedie?
Scusate: dimenticavo la buona notizia. Finalmente.
Non so se la mia scuola sia provvista proprio di tutte quelle certificazioni (mi pare di sì), ma ne conosco la storia e le vicende degli ultimi tre decenni. C’è qualcosa da imparare.
Anzitutto, la fondazione: 1621, ad opera dei Padri Scolopi. Mura squadrate, spesse, costruite col vecchio criterio di mantenere la base più larga della sommità: come nella mia abitazione (sec. XV), i muri non sono dei parallelepipedi, bensì dei tronchi di piramide.
Non sono un tecnico, ma queste mura hanno resistito ai secoli: perché?
Poiché quando costruire costava tanta, ma veramente tanta fatica – dal raccogliere le pietre nei torrenti per chilometri, fino all’erezione manuale di tutte le impalcature, all’impasto a forza di braccia di tutto quel che serviva – si conservava memoria del sudore e si facevano le cose per bene.
Ho assistito anche alla grande ristrutturazione che avvenne quasi trent’anni or sono, poiché la Preside – donna di classe ed orgogliosa della sua femminilità – riteneva, semplicemente, che quelle faccende fossero “cose da uomini”. Punto e basta.
Non ci furono fumosi “progetti”, “assegnazioni”, “responsabili” – se ben ricordo non ci furono nemmeno dei soldi di mezzo – perché s’andava ancora con il vecchio buon senso. Chiamò in presidenza un paio di docenti e l’assistente tecnico (tutti rigorosamente maschi, ovvio) e chiese loro con gentilezza e signorilità d’occuparsi al posto suo della questione, perché lei – lo ammetteva senza remore – non ci capiva nulla.
Fu una bella esperienza.
C’accorgemmo che il pavimento di un laboratorio “tremolava” un pochino e lo segnalammo al Geometra del Comune: detto fatto, fu organizzata durante le vacanze estive una prova di carico – la quale consiste nel caricare sul pavimento molti sacchi di cemento e poi fare delle misurazioni – dalle quali i tecnici stabilirono che si trattava di normale elasticità della soletta in robusto castagno, ancora perfettamente integro.
Ci fu poi la necessità di ricavare nuove aule dalle vecchie celle dei frati, abbattendo muri divisori che non erano semplici tramezzi, bensì strutture portanti. Il Geometra voleva realizzare aule più grandi abbattendo due tramezzi, ma l’Ingegnere della Provincia s’oppose poiché riteneva che la cosa avrebbe indebolito la struttura.
Ci furono parecchie discussioni – compresi noi, che tecnici non eravamo – per spiegare, capire, decidere. Alla fine, tutti fummo d’accordo che era meglio avere aule più piccole ma sicure. Vallo a dire alla Gelmini – miss “so tutto io” – che adesso ti mette 30 allievi per classe e non sai dove piazzarli.
Per il tetto, l’impresa che aveva vinto l’appalto ci disse a chiare lettere che spendere 40 milioni per il tetto era come buttarli al vento: «Dando solo una “ripassata”, tante tegole si cambiano e tante se ne rompono camminando: meglio aspettare, metterci più soldi e rifare il tetto da capo».
Seguimmo il suo consiglio e, pochi anni dopo – grazie ad un nuovo stanziamento – fu possibile rifare completamente il tetto. Il quale, gode tuttora d’ottima salute.
Poi venne la nuova stagione dei “Dirigenti Scolastici” i quali – poveretti loro – sono stati nominati pomposamente “Dirigenti” e di tutto devono sapere e capire. Dal Diritto alle ristrutturazioni.
Modesta e recente revisione dei pluviali e delle discese d’acqua dal tetto: tre discese partono dal tetto, diventano due al livello di un terrazzo intermedio e terminano in una sola a terra. Tutte, ovviamente, d’identico diametro. Risultato: allagamento. Ci vuole tanto a capire il problema?
Di chi la colpa?
Di nessuno e di tutti, perché oggi vige la “dittatura degli esperti”, le famose imprese chiamate a ristrutturare con i soldi pubblici le quali – guarda a caso – sono sempre le stesse.
Altro “esperto” fu l’idraulico che piazzò – questa volta a casa mia – una vaschetta zincata per un impianto di riscaldamento fatto con tubi di rame. Provai a balbettare qualcosa sulla pila di Volta. Mi fu risposto che “ne aveva messe tante”. Due anni dopo, vaschetta bucata ed allagamento invernale: quella volta fui io ad imporre una vaschetta di rame, la quale sta benissimo dopo tanti anni.
Insomma, tirando le conclusioni, la bella notizia è che io – a scuola – mi sento sicuro perché la struttura fu costruita in tempi “non sospetti” quando, a parlare di “obsolescenza programmata”, t’avrebbero bruciato sul rogo. Ma, con tutta questa fatica, dobbiamo farla male per poi rifarla?!?
E devo riconoscere che, le persone chiamate a ristrutturarla trent’anni fa, lavorarono bene perché avevano a cuore quel che facevano (uno, era addirittura un ex allievo): ciò non significa che lavorassero per pochi soldi, ma a fronte dei soldi richiesti fornivano una prestazione brillante.
Perché?
Poiché non ci sarà mai nessuna “tabella”, nessun “metodo” meritocratico in grado di competere con la semplice buona volontà, con l’etica professionale di chi desidera fare una cosa al meglio.
Cosa serve, allora?
Per prima cosa ascoltare quel che raccontano gli istituti di statistica da anni: il dato più pericoloso, per il futuro d’Italia, è rappresentato dallo “scollamento” sociale, dalla mancanza d’unità negli intenti, nel “tutti contro tutti” alimentato dall’assenza di vera cultura e dai media asserviti.
Siamo “pappetta" sociale e questo, in una nazione che ha avuto un percorso d’unificazione assai tormentato, concede troppe frecce al rischio di un’involuzione di tipo balcanico.
Se non riusciremo a ricostruire i legami amicali, comunitari, se non saremo in grado di ripartire cancellando di brutto gli ultimi decenni, buttando con gioia nel cesso tutta la paccottiglia che ci hanno propinato sulla “competitività”, sul “merito” (che decidono loro) e tutto il resto finiremo di certo a carte quarantotto.
In seconda battuta spendere, ma saper spendere con competenza ed onestà: a cosa serve costruire faraonici ponti ed altre facezie del genere, quando sono le scuole a crollare? Chi va a raccontare ai genitori di Vito Scafidi che si taglia sulla scuola per costruire un ponte che non servirà a niente – il futuro dei trasporti è l’acqua, non la terra, ancor più per la Sicilia – ci andrà quel tizio che ha il coraggio di chiamarla “fatalità”?
Da ultimo, dobbiamo ficcarci in testa che – se non riusciremo a cacciare questa pletora di politici inefficaci ed inefficienti – loro cacceranno noi. Lo stanno già facendo: Vito, se fosse diventato un bravo scienziato od un valente ingegnere, sarebbe dovuto emigrare come tanti suoi simili già stanno facendo.
Un Paese che non sa garantire la sicurezza nelle scuole, che costruisce anche quelle con il criterio dell’obsolescenza programmata – per domani foraggiare nuove tangenti – può attendersi solo nuove disgrazie ed un fosco futuro.
E non tiriamo in ballo il Fato – per favore – perché per gli antichi era cosa assai seria, mica le barzellette da Bagaglino che ci ammansiscono dai teleschermi. Spegniamoli, per favore, spegniamoli, sempre di più.

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Carlo Bertani
(tratto da http://carlobertani.blogspot.com/)
[1] Fonte: http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/cronaca/maltempo/allarme-bertolaso/allarme-bertolaso.html
[2] Fonte: http://redazione-repubblica.blogautore.repubblica.it/2008/11/23/le-scuole-sono-sicure-racconta-la-tua-esperienza/

lunedì 24 novembre 2008

Post di Aragona e Gambescia

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Il disastro della scuola di Rivoli

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di Guido Aragona
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Da quello che viene riportato dai giornali, credo proprio che sarà molto difficile trovare un responsabile, un colpevole, dell'accaduto; a meno di trovare un capro espiatorio che paghi per tutti. Provo a dire brevemente perché.

1) Il controsoffitto crollato era in tavelloni. Questo tipo di controsoffitto, specie negli interventi su uffici e scuole, è in disuso da moltissimo tempo. Almeno da 30-40 anni, se non di più. Da allora, i controsoffitti si fanno normalmente con componenti industriali in pannelli su struttura metallica, e ispezionabili (per uffici, scuole); oppure in cartongesso (nelle case d'abitazione o laddove non esiste l'esigenza di ispezionare impianti sovrastanti il controsofitto).Se ne deduce che il manufatto crollato faceva parte di un intervento molto vecchio. Il progettista, se c'era, forse è già defunto o vecchissimo. Se c'era. Così come è probabile che non si sia più in grado di risalire all' impresa che realizzò i lavori.

2) la causa è stato il cedimento dei "pendini" in fil di ferro, probabilmente vecchissimi, che sostenevano un tubo di scarico in ghisa non più in uso, celato sopra il controsoffitto. In sostanza, per prevenire l'incidente, o le persone avrebbero dovuto avere la vista "a raggi x", oppure avrebbero dovuto esserci sondaggi e successivi disegni che rilevassero lo stato di fatto effettivo dei manufatti.

3) molto probabilmente il controsoffitto non aveva abbastanza barre d'acciaio all'interno, non era costruito a regola d'arte. Il che ci riporta all'interrogativo: è un difetto di esecuzione o anche progettuale? E a seguire: esisteva un progetto? Esistono disegni che documentino quell'intervento?

4) la risposta, secondo quanto dicono i giornali, è "no". Anzi, pare che non esistano del tutto i disegni della scuola. Questo mi pare più strano: perchè, quanto meno per l'ottenimento del cosiddetto NOP (Nulla Osta Provvisiorio dei Vigili del Fuoco) almeno i disegni delle piante e di qualche sezione dell'edificio dovrebbero esserci. Ma ci riporta alla successiva questione:

5) Guido Bertolaso, intervistato ieri da più parti, ha affermato: «Prendiamo la 626, la madre di tutte le leggi della sicurezza. Nei decreti cosiddetti “mille proroghe” si scopre che ogni anno - di sicuro fino al 2006 - qualcuno faceva sempre la proroga perché non venisse applicata negli edifici scolastici».

La legge 626, del 1994, non è in realtà la "madre" di tutte le leggi della sicurezza (importanti leggi vigenti sulla sicurezza risalgono agli anni '50), ma non importa. Il fatto vero è che l'applicazione della 626 negli edifici scolastici comporterebbe rilievi accurati degli edifici e dei manufatti in esso contenuti, anche riguardo al loro stato di manutenzione. E poi, la realizzazione di interventi organici - e non sporadici - di manutenzione straordinaria e messa a norma. Certo, costosi.Ciò porta al seguente responso preliminare: la responsabilità è stata dei governi e del parlamento. Quindi, "non ci sono responsabili", a meno di qualche capro espiatorio che magari aveva la funzione di "responsabile della sicurezza della scuola". Magari un professore di essa.Troppo comodo ... ed ancor più comodo, quasi osceno, parlare di "fatalità".

Guido Aragona
( tratto da http://bizblog.splinder.com/ )

Per gli aggiornamenti si veda qui: http://bizblog.splinder.com/post/19148523/Ancora+sulla+scuola+di+Rivoli%3A

Divagazioni sull’invidia
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di Carlo Gambescia

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Che cos’è l’invidia? Nella dottrina cattolica è addirittura un peccato capitale. Stando ai vocabolari è un sentimento di astiosa irritazione di fronte alla ricchezza, al successo alla felicità, alla fortuna o ad altre qualità dell’altro. Il latino invido (termine da cui deriva invidia) significa “guardare bieco”. Per farla breve, non è un sentimento positivo.
Tuttavia per alcuni sociologi l’invidia è un meccanismo di avvio. Può dare vita a un processo di emulazione dai risultati positivi: tu sei ricco, perché hai fatto tanti soldi, io di conseguenza, invidiandoti, mi metto subito all’opera per farne tanti anch’io. E così via… Può essere. Anche se il passaggio dall’invidia teorica a quella pratica non è mai sicuro. Spesso l’invidia resta una specie di comodo riparo esistenziale, legato al "restiamo alla finestra"… Ben riassunto da un aforisma di Max Beerbohm: “L’invidia del cretino per l’uomo brillante trova sempre qualche consolazione nell’idea che l’uomo brillante farà una brutta fine”. Insomma, l’invidia teorica può trasformarsi in forza inerziale e non di mobilità sociale.
Ma, tornando all’invidia pratica, possiamo parlate di invidia positiva, se per la fretta di fare quei soldi - parliamo di un sentimento che comunque corrode l’anima - magari si finisca per imbrogliare il prossimo? Può perciò l’invidia essere coltivata come valore sociale? Esistono invidiosi onesti? O solo invidiosi furbi o fortunati?
Immaginiamo un mondo - ipotesi limite - dove tutti provino invidia per tutti. Come si vivrebbe, singolarmente, sotto la sfida del continuo astio verso la ricchezza di chi ci sia vicino? Sicuramente male.
Oggi, infatti, in una società come la nostra, a invidia sufficientemente diffusa, non si vive bene. Forse meglio rispetto ad altre società storiche. Ma, come dire, si vive più spiando la felicità degli altri che godendo, quando pure vi sia, della propria.
Quanto all’invidioso, secondo la saggezza popolare, si tratta di una persona “fegatosa”. Che soffre di disturbi al fegato. Di qui, come sostenevano i nostri nonni, quel colorito giallognolo tipico di tali persone. Secondo la medicina tradizionale cinese il fegato - punto debole dell’invidioso - , deve favorire l'armonioso fluire del Qi (l’energia individuale) all'interno di tutto l'organismo. Di riflesso, se tale energia viene “bloccata” a causa di una disarmonia del fegato, provocata dalla continua tensione nervosa, si avranno, ad esempio, disturbi agli occhi quali bruciore, dolore, secchezza, macchie di sangue nel bulbo oculare. Insomma l’invidioso vive male. Ma anche la medicina moderna consiglia, in via indiretta, di non sottoporre il fegato ad eccessivo stress di tipo alimentare-nervoso. Quello stress che segna la vita poco armoniosa di chiunque "guardi bieco" l'altro.
Ecco dunque la scienza medica dell’ Occidente e dell’ Oriente congiungersi contro gli invidiosi. Per una volta i medici sembrano più avanti di tanti sociologi.
Per tornare alla politica di oggi, Berlusconi è più amato o invidiato? Coloro che lo hanno votato lo amano? Oppure segretamente lo invidiano. E magari hanno votato il Cavaliere nella speranza di poter diventare ricchi come lui?
E quelli non lo hanno votato? Sicuramente non lo amano. Ma, segretamente, lo invidiano. E perché si dovrebbe invidiare Berlusconi? Perché è ricco. E la ricchezza, e non importa come accumulata, è la prima causa dell’invidia, almeno così insegnano i saggi. E Berlusconi? Pare non dia alcuna importanza all’invidia altrui. E se lo può pure permettere visto che è ricco.
Quanto alla persone comuni, vittime dell’invidia altrui, l’unica forma di difesa consigliata è ignorare gli invidiosi, seguendo il dantesco “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” . Ma con maggiore fatica, rispetto a Berlusconi, soprattutto quando, come nel caso della gente comune, non si hanno i suoi miliardi.
Faticosamente guadagnati? Mah... Ecco, in quel "mah" c'è un pizzico di invidia.

Carlo Gambescia

domenica 23 novembre 2008

Post di Vacca e Cedolin
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Pdl: partito del leader
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di Nicola Vacca

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Qualche giorno fa si è sciolta Forza Italia. Silvio Berlusconi, che ne è stato il fondatore, ne ha decretato anche la fine. Il nuovo centrodestra si chiamerà Pdl ma l’unico a decidere le sorti della nuova formazione politica è sempre e soltanto lui. Il Cavaliere che ha diritto di vita e di morte su tutto quello che accade nel suo schieramento.
È il berlusconismo a dettare le regole del partito che nascerà. Dal giorno del predellino a oggi si è fatta pochissima strada. Il Pdl è nato sulla contingenza delle recenti elezioni politiche come mero accordo elettorale. Vincere era l’obiettivo. Lo scopo è stato raggiunto. Adesso, in vista delle elezioni europee, il premier accelera ma non scende dal predellino. Silvio deve stare sempre un gradino più in alto dei suoi alleati che non hanno nessun diritto di dissentire.
Il nuovo partito di centrodestra, che vedrà insieme Forza Italia e Alleanza Nazionale, dovrà nascere esclusivamente sul Berlusconi pensiero. Ad Alleanza Nazionale, che in più occasioni ha dimostrato perplessità sulla struttura del nuovo partito, non resta che ratificare le scelte del capo supremo.
Il Pdl è un accordo di Palazzo, piuttosto che un incontro di popolo.
Berlusconi deve capire che con un partito di plastica non si va molto lontano. Bisogna lavorare per mettere seriamente a punto un partito conservatore di massa nel quale siano le culture politiche a fare le differenze. Questa è la via maestra per dare a tutti gli italiani che non si riconoscono nella sinistra una casa comune nella quale ritrovarsi attraverso l’identità.
Gianni Baget Bozzo qualche giorno fa sul Foglio ha detto che il Pdl è Berlusconi. Dal partito unico elettorale a una Forza Italia allargata. La rivoluzione liberale è compiuta.
Nicola Vacca



Troppi giorni di ordinaria follia

di Marco Cedolin


La strage familiare di Verona nella quale un commercialista ha ucciso a pistolettate la propria moglie ed i loro tre figli, prima di rivolgere l’arma verso sé stesso e suicidarsi, riporta l’attenzione verso la tragedia degli omicidi – suicidi all’interno della famiglia, diventati ormai una costante della cronaca nera giornaliera. Tragedia all’interno della quale emergono in maniera drammatica tutte le contraddizioni di una società “malata” che fagocita le menti dei propri figli sull’altare di un fantomatico progresso.
Si vive immersi in una cacofonia di stimoli sensoriali, indotti al solo scopo di aumentare in maniera esponenziale i bisogni materiali dell’individuo, in ossequio alla logica consumistica che per sopravvivere necessita d’innescare sempre nuovi bisogni al soddisfacimento dei quali è assoggettata la felicità di tutti noi. Felicità che non tarda a tramutarsi in insoddisfazione e frustrazione per la stragrande maggioranza delle persone che non posseggono le disponibilità economiche sufficienti per l’acquisto di tutte quelle merci e servizi che (pur non essendolo) vengono percepite come indispensabili. Il consumo, e conseguentemente l’accumulo del denaro che lo consente, sta diventando ogni giorno che passa sempre più l’unico terminale delle ambizioni di individui che sono stati indotti ad accantonare qualsiasi valore morale (onestà, saggezza, integrità, altruismo) ritenuto superfluo, quando non addirittura controproducente al raggiungimento dello scopo.
Il “fare soldi” è diventato lo scopo di vita precipuo, essendo questo obiettivo instillato già nelle menti dei bambini fin dalla tenera età, bimbi che si vuole fin da subito vincenti, competitivi e cinici. L’arricchimento culturale, artistico e intellettuale non viene al contrario tenuto nella minima considerazione, tranne qualora possa venire facilmente monetizzato.
In conseguenza di ciò nei modelli proposti dalla famiglia e dalla scuola, l’imprenditore edile che “si è fatto da sé” ed ha accumulato ville ed auto potenti è la rappresentazione del vincente da imitare, contraltare dell’ottimo violinista o scrittore che non avendo però ottenuto adeguato ritorno economico dal proprio lavoro è stato costretto a vivere negli stenti e risulta pertanto perdente di fronte alla vita.
L’interpretazione dell’esistenza sotto forma di battaglia, dove l’aspirazione all’accrescimento materiale ha fagocitato ogni velleità di crescita interiore, l’abitudine di suddividere le persone in vincenti e perdenti, il senso di competizione che deve accompagnare ogni attimo della giornata, sono tutti elementi che contribuiscono ad aumentare il grado della frustrazione individuale. In ogni competizione infatti accanto ad un vincitore ci saranno molti perdenti e nella nostra società trasformata in una sorta di “gara a fare soldi” tutti coloro (la grande maggioranza) che non saranno riusciti nell’impresa finiranno per percepirsi come inadeguati e disadattati in quanto perdenti in una società dove è obbligatorio vincere.
Ma è proprio nell’ambito della famiglia e degli affetti che l’individuo cresciuto per “competere e basta” mostra tutta la propria inadeguatezza, all’interno di rapporti interpersonali diventati sempre più difficili, pregiudicati come spesso accade dalla mancanza di sensibilità, dalla incapacità patologica di aprirsi agli altri, di dare e ricevere amore in completa gratuità.
L’individuo forgiato per l’unico scopo dell’arricchimento monetario e della competizione, finalizzati a conseguire idilliache “carriere” prodromiche di fantomatica felicità e realizzazione personale, finisce per trovarsi completamente spiazzato di fronte ai propri simili, abituato a considerarli da sempre unicamente nella veste di avversari. Nella creazione di un rapporto di coppia o di amicizia egli finisce infatti per portarsi dietro quella sorta di “arena” che gli è propria, con il contorno di competizione, invidia e sopraffazione che finiranno giocoforza per minare mortalmente in profondità il rapporto stesso.
I ritmi frenetici imposti dalla tecnomacchina e la tendenza sempre più esasperata all’ipercinetismo, quale espediente per non doversi mai soffermare un attimo “a pensare” riducono la nostra vita ad una corsa continua nel nulla delle nostre ambizioni. Manca sempre il tempo. Il tempo per gli affetti, il tempo per noi stessi, il tempo per vivere, il tempo per quella manifestazione d’intelligenza ormai in disuso che è il pensiero. Le nostre esistenze sempre più spesso finiscono per scimmiottare in maniera grottesca i modelli della radio e della TV, dove la fretta imperante, ancorché ingiustificata, alterna notizie urlate senza tirare il fiato a interminabili eternità di orientamenti agli acquisti.
Accade inoltre molto spesso che anche chi è riuscito ad arricchirsi e perciò “a vincere” sia stato costretto a pagare un prezzo comunque inaccettabile per questo suo successo. Accade che alla fine della “battaglia” invece della felicità agognata gli si palesi dinanzi il nulla della propria vita affettiva, l’assoluta mancanza di rapporti veri, un abisso inenarrabile di solitudine.
Proprio l’estrema solitudine interiore è una delle risultanti maggiormente deleterie indotte da un modello di vita ipercompetitivo. L’individuo chiuso ermeticamente nel proprio io non può infatti permettersi di condividere realmente con nessuno il proprio tentativo di abbarbicarsi sempre più in alto nella scala sociale, neppure con le persone che gli stanno accanto, essendo anch’esse potenzialmente elementi della competizione.
Sempre più marcatamente le famiglie si stanno trasformando in un ricettacolo di persone aliene l’una all’altra in quanto perse ciascuna nella propria individualità impermeabile rispetto all’esterno. I mariti, le mogli, i figli ed i genitori, all’interno di nuclei famigliari sempre più atomizzati, hanno modo di rapportarsi fra loro solamente quando la coincidenza dei rispettivi “tempi liberi” lo consente e quasi sempre si tratta di contatti superficiali, poiché in fondo all’animo continuano a rimanere degli estranei. Molto spesso le persone passano più tempo con i colleghi in ufficio o in fabbrica di quanto non ne trascorrano con il proprio partner ed i propri figli.
Ne consegue che quando si ritrovano l’uno di fronte all’altro non riescono a trovare nulla da dirsi, quasi fossero separati fra loro da una sorta di muro invisibile. Si scoprono attori di vite diverse, chiusi all’interno della propria incomunicabilità patologica, incapaci tanto di dare quanto di ricevere.
Tutti questi elementi contribuiscono a creare una società ansiogena ed isterica nella quale la depressione, i raptus di follia, i casi di suicidio e le stragi familiari continuano a crescere in maniera vertiginosa. Ma la causa scatenante che più di ogni altra spesso s’innesca sul retroterra di tante vite che non hanno il tempo di viversi, fino a determinare delle alterazioni comportamentali anche profonde e violente è la “precarietà”.
Precarietà del lavoro, inteso come mezzo per esistere, per essere accettati dagli altri, per avere una dignità, dal momento che un disoccupato nella nostra società finisce per somigliare ad un morto che cammina, invisibile a tutto e a tutti, e proprio il numero dei disoccupati, testimoni silenziosi di quella sconfitta che mette terrore, sta continuando ad aumentare in maniera esponenziale.
Precarietà degli affetti, figlia dell’incomunicabilità e di quella paura atavica della solitudine che da sempre portiamo dentro di noi.
Precarietà di tutto ciò che possediamo o forse semplicemente pensiamo di possedere, precarietà di una vita trasformata in competizione, dove alla fine non vince nessuno e stiamo perdendo tutti la nostra umanità.

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Marco Cedolin

(tratto da http://ilcorrosivo.blogspot.com/ 21-11-2008)



sabato 22 novembre 2008

Critica del “pregiudizio” ;-)
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di Barbara (Cloroalclero)

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Il pregiudizio è un "giudizio a priori" assegnato a una cosa di cui non s'è fatta esperienza. Si parla di "pregiudiziale antifascista", ad es. quando si discute su come instaurare una possibile "opposizione" come carta d'ingresso nelle fila di chi " ha a cuore la democrazia".
Il pregiudizio antifascista risale a quando l'amore per il partigiano ha sostituito il nazionalismo che aveva animato, per es. il periodo della prima guerra mondiale.
Una caratteristica del pregiudizio è quella che esso, proprio per non aver sperimentato ciò su cui si giudica, "ritaglia" il passato a misura del "monumento" storico che fonda il pregiudizio stesso, per esempio
: il mito partigiano , diffuso oggi presso i giovani di sinistra che si sono ribellati al decreto Gelmini ignora completamente la storia reale della Resistenza italiana e assume soltanto quel carattere di "nuovo nazionalismo" che si esprimeva in Italia per via del ruolo particolare(cobelligerante) con cui si è usciti dal secondo conflitto mondiale e che doveva per forza distaccarsi dal nazionalismo di stampo liberal-fascista, così abbarbicato agli eventi stessi che avevano trascinato l'Italia in guerra.
Ma se il pregiudizio antifascista è legato alla necessità di un nuovo "mito fondativo" che si è determinato storicamente dalla posizione dell'Italia in guerra, il potere successivo è riuscito a sfruttare le contingenze storiche che hanno determinato il terrorismo italiano e i successivi sviluppi, per revisionare quello stesso periodo storico in cui si sono conseguiti dei diritti.
A livello di comunicazione di massa, si pone spesso l'accento su ciò che ha scritto Giampaolo Pansa sulla fine della guerra, bollandolo come "revisionista", mentre si distoglie l'attenzione da un certo Bettino Craxi che, nonostante fosse inviso agli americani per la storia di Sigonella, è il principale responsabile dell'americanizzazione istituzionale dell'Italia, a partire da quel referendum sulla contingenza con il cui assenso gli italiani mostrarono fiducia nei suoi confronti.
Quel referendum fu una tappa storica: dopo aver rinunciato al terrorismo, la sinistra italiana plasmò la sua identità su un'ottica di asservimento ai padroni che portò alla significazione del moderatismo come "valore aggiunto" nella dialettica politica successiva. Tangentopoli, se possibile, aggravò la situazione, promuovendo oscuri personaggi cresciuti politicamente all'ombra di Craxi e di De Michelis (vedi Brunetta) presentandoli all'opinione pubblica come se fossero "homines novi".
Alla vigilia dell'apparente "grande epurazione di Tangentopoli" un mediocre uomo politico, Mariotto Segni , veniva spacciato come un "sostanziale riformatore" per aver promosso un referendum che ha trasformato il sistema proporzionale, che costringeva i politici eletti ad una maggiore disponibilità al compromesso, in sistema maggioritario (che tradisce molti principi democratici, tra cui il diritto di rappresentanza, a favore di un sistema "assopigliatutto" che, come sta avvenendo, può degenerare in una "dittatura della maggioranza". Di fatto oggi il governo rispecchia la rappresentanza di poco piu' del 20% della nazione italiana)
Nel frattempo i media seminavano paure contro l'estremismo.Nella seconda metà degli anni '90, in Italia, con la Desdemona Lioce che assassinò D'Antona e, piu tardi, Biagi, i media agitarono ancora una volta lo spauracchio del terrorismo e questi eventi, a lungo termine, portarono alla perdita di voti in entrambi gli schieramenti "estremi" sia nella destra che nella sinistra. Mi rendo conto che si tratta di un'analisi un po' semplicistica, espressa così, ma non volendomi dilungare, fu questo che sostanzialmente accadde.
Arriviamo alle ultime elezioni dove lo sbarramento massacra la rappresentanza :sia a destra, col partito di storace, che a sinistra, con rifondazione (Bertinotti) e PCI (Diliberto),ovvero diversi milioni di elettori non vengono rappresentati.
Il substrato sottoculturale dei media continua, oggi, a demonizzare chi si pone in posizione avversa alle leggi del potere, mentre un partito artificioso come il PD assiste, senza replicare, alle iniziative governative volte a creare condizioni ideali affinché la prosecuzione della tutela degli interessi borghesi continui indisturbata. E quindi assistiamo a diatribe tra Berlusconi e Veltroni su "se sia o meno legittimo protestare" senza che il partito di opposizione (che si limita solo ad ammonire la controparte perché "ascolti le proteste") elabori un abbozzo di controproposta, manifestando una qualsivoglia volontà di costituire valide alternative.
Se gli opposti estremismi vengono prima demonizzati e poi emarginati, ciò è in nome di un pregiudizio che si basa su un distorto e snaturato concetto di dialogo, rendendolo antidemocratico. Uno pseudodialogo che implica margini di trattativa estremamente più elevati da un lato (quello del potere) e praticamente nulli (a parte qualche particolare marginale per fare scena) dall'altro.
Se ricordiamo il governo Prodi che ha rappresentato l'ultima "sinistra governativa" non è difficile capire che quella famosa discussione per rinnovare il finanziamento militare in Afghanistan nel 2007, costò dimissioni e anche epurazioni ai senatori( di "estrema" sinistra) che osarono opporsi perchè, nonostante sia un argomento colossalmente imbrigliato nei principi (anche costituzionali) del rifiuto dell'occupazione e della guerra, la sinistra governativa non aveva lasciato NESSUNO spazio di manovra a questi semplici e basilari principi politici e a chi li sosteneva. I senatori furono bollati come "estremisti", pericolosi, sia per la sussistenza del governo che per il "dialogo".
In quel momento fu evidente che la sinistra "moderata" a tal punto da appoggiare una logica bellica ingiustificata, era così moderata che non poteva neppure più dirsi sinistra. Il pregiudizio aveva già vinto: il rifinanziamento passò, i senatori furono denigrati da tutti e il governo restò in piedi finché non scoppio' il "caso Mastella" , che è il "massimo" della dialettica che questa sinistra "moderata" poteva esprimere. E infatti Prodi per esso è caduto e il resto lo conosciamo.
Concludendo, possiamo considerare oggi il pregiudizio come un "prodotto sottoculturale" del potere, tale e quale la "paura del terrorismo islamico" o "paura che gli zingari rubino i bambini" . Ciascun messaggio ha una funzione specifica e tende ad orientare l'opinione pubblica per promuovere persone e poteri che possono avvantaggiarsene, sfruttando i meccanismi esistenti e, laddove vi fossero ostacoli, crearne di nuovi.
Oggi il pregiudizio che si coltiva di più è quello del moderatismo, per orientare, anche elettoralmente, le masse a far sì che le regole collettive le decidano gruppi partitici sempre meno differenziati tra loro, nella ricerca di modi sempre nuovi per far tessere alla borghesia italiana la rete di interessi che la collegano alla borghesia mondiale senza interferenze. In modo tale che non sia un problema per loro, qualche decina di milioni di persone che chiedono risorse per gli ammortizzatori sociali avendo magari perso casa e lavoro per effetto indiretto di quelle speculazioni che tanto hanno fatto star bene quelle poche migliaia di famiglie di padroni che, nel presente, temono l'insidia di trovarsi costrette a cambiare lo Yacht di 12 metri con uno di 8.
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Cloroalclero