lunedì 22 dicembre 2008

Non si può decidere di morire se, in realtà, si è già morti dentro...
Intervista al dottor Adriano Segatori, psichiatra-psicoterapeuta


Adriano Segatori, già psichiatra-psicoterapeuta presso il Dipartimento di Salute Mentale di Gorizia. Si è occupato di pensiero unico e istituzioni totalizzanti. Attualmente è impegnato nell'ambito della filosofia delle scienze sociali e della comunicazione simbolica dalla prospettiva tradizionalista, come dottore di ricerca presso l'Università dell'Insubria.


Tra le sue numerosissime opere piace qui ricordare Il Manifesto di Psiche, con M. Bertali e F. Bertini (Sensibili alle Foglie, 1999) e Il suicidio. Eventi e comportamenti (Sensibili alle Foglie, 2000). A tale riguardo lo abbiamo interpellato come esperto.




Perché si dice di no alla vita? Durkheim distingueva tre tipi di suicidio (anomico, egoistico, altruistico). E’ una tripartizione ancora attuale, anche dal punto di vista della psichiatria sociale?

In linea di massima si può sempre accettare la classificazione di Durkheim, perché dà una idea di tre motivazioni di rapida comprensione. L’anomia è sempre più presente nella moderna organizzazione sociale, proprio documentata dalla maggiore aleatorietà di ogni norma interiorizzata, dallo scadimento a contratto risolvibile in ogni momento e per qualsivoglia motivo di ciò che un tempo era legame e parola data, dalla conseguente precarizzazione di ogni relazione, non solo di quella legata al mondo del lavoro. Tutto ciò determina una deprivazione di riferimenti individuali e comunitari e un disadattamento diffuso fino alla disintegrazione psichica e sociale. L’egoismo è anche particolarmente nella nostra collettività attuale, con una spinta narcisistica “istituzionalizzata” che porta il singolo a concentrarsi in modo patologico sulle sue esigenze materiali a discapito delle ovvie limitazioni relazionali; in altri termini i diritti prevaricano i doveri e l’isolamento è la logica alternativa al confronto affettivo e alla disponibilità emotiva. È il caso di dire che questo tipo di suicidio è l’unica e massima espressione di un fatto personale. Infine, quello altruistico è invece – oggettivamente – meno diffuso in questi tempi e nei nostri luoghi. Esso si fonda sull’annullamento di sé, sull’eccesso del senso del dovere, sul valore assoluto della comunità di appartenenza rispetto alla vita individuale. A parte casi di anziani, di sette religiose americane, degli antichi samurai o – pur dovendo aprire un capitolo a parte sullo stesso termine di <> – dei martiri cristiani, al giorno d’oggi l’unico gesto che si avvicina a questa categoria è quello praticato dai gruppi combattenti islamici.
Altri scenari si aprono, però, oltre ai tre descritti da Durkheim, che sono caratteristici dei nostri tempi, come le spinte suicidarie in comportamenti sessuali a rischio, oppure nelle lente morti individuali e di gruppo con l’anoressia, o ancora quelli legati alle cosiddette morti da overdose nei tossicodipendenti.

Spesso alle origini di un suicidio, soprattutto dei giovani fino a 18 anni, vi sono motivazioni legate a una difficile socializzazione. Ci si senti soli e incompresi. E di riflesso inutili…

Credo che ormai si abusi all’inverosimile del termine <>. Sono convinto – per età e per esperienza professionale – che la socializzazione era molto più difficile trenta e quarant’anni fa, con regole rigide di comportamento, con limitazioni familiari nei rapporti giovanili, con una morale più severa e rigorosa. Il problema secondo me è molto più complesso. Innanzitutto, un tempo, esisteva una famiglia che imponeva con l’esempio un certo stile di vita. Ora si vive in una condizione schizofrenica, nel senso che si danno indicazioni contraddittorie chiedendo, contemporaneamente, una patologica adesione alle stesse. Si rivendica, ad esempio, una libertà emancipatrice, una progettualità nello studio, una autonomia esistenziale, dopo di che, nell’esame di realtà, si vive in una società il cui controllo non era stato nemmeno immaginato da Bentham, non c’è più alcuna prospettiva creatrice nel mondo del lavoro, mancano le minime opportunità per assumersi responsabilmente doveri e impegni. In questo senso, i genitori sono infantilizzati in una dimensione di frustrata maturità, i giovani sono “maturizzati” in una dimensione di frustrata giovinezza, e tutti convergono in una demoralizzazione condivisa. I giovani, poi, sono da decenni plagiati ad una visione della vita irenistica. Come hanno fatto con precisione osservare Benasayag e Schmit, le nuove generazioni sono state allevate all’insegna che ogni desiderio debba essere realizzato ed ogni facilitazione debba essere concessa, senza rendersi conto – da parte dei detentori di questo losco potere (dis)educativo – che “Se tutto sembra possibile, allora più niente è reale”. In questo senso non si hanno creato attraverso fisiologiche e misurate frustrazioni – con la stessa tecnica, tanto capirci, dei vaccini – un’adeguata immunizzazione psichica nei confronti di ciò che la vita propina e a ciò che esistenzialmente si è esposti. Ciò che fu il morbillo degli spagnoli di Cortés per gli aztechi è il confronto con la realtà per i giovani del tempo attuale.

Nel suicidio degli adulti spesso prevalgono ragioni affettive. Si vuole essere liberi ma al tempo stesso si ha bisogno dell’altro. Che a sua volta vuole essere libero, e così via. Di qui la necessità di affetti stabili e di autenticità. Ma, purtroppo, in una società che impone la precarizzazione anche degli affetti individuali… Come uscire da questo circolo vizioso?

Anche questo discorso sulla libertà ci porterebbe molto lontano, ma per centrare subito il discorso basterebbe tenere sempre presente la domanda implicita in una frase pronunciata dallo Zarathustra di Nietzsche: Libertà va bene, ma oltre alla libertà da bisognerebbe anche chiedersi quale libertà per. In altre parole, la parola libertà è ormai diventata un mantra, una sonorità esorcistica priva di qualunque valenza etica, progettuale, spirituale e psichica. A questo proposito riporto sempre – come esempio esplicativo – la famosa scritta murale dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste, che personalmente considero il più chiaro prototipo di velleità e di mistificazione: La libertà è terapeutica. Per rubare un modello interpretativo a Gorgia, come la parola è lógos phármakon, cioè contemporaneamente medicamento e veleno per l’anima, così anche la libertà non è né terapeutica né antiterapeutica, ma farmaco per la psiche dell’uomo. Tutto dipende se quel preciso individuo sa usufruirne, quanta possa esercitarne, quale sia il dosaggio adeguato. È vero che la società è sempre più precarizzata in tutti i suoi aspetti organizzativi e relazionali, è vero che l’uomo ha la necessità naturale di legami affettivi stabili e di rapporti interpersonali autentici, ma è anche vero quest’uomo ha perduto la misura di tre paradigmi tra loro intersecantesi: il diritto ad una esistenza autentica e appagante va di pari passo al dovere che si è disposti a mettere in gioco per rispettare i desideri e le aspettative dell’altro, nonché alla quota di responsabilità che ognuno ha la possibilità di assumersi. Lo sbilanciamento di questo equilibrio determina delusione, solitudine, rivendicazione astiosa. Da ciò tutte le altri variabili delle motivazioni suicidarie: il suicidio per senso di fallimento, il suicidio come accusa verso il partner, il suicidio come fine di una sofferenza ecc. Come uscire da una condizione di diffusa infelicità? La risposta è impossibile in termini tecnico-psicologici. Come Carl Schmitt aveva fatto notare, la desacralizzazione generalizzata non poteva che provocare la solitudine umana e l’annegamento dell’uomo nella materialità del mondo, un senso di vuoto corrispondente alla mancanza di senso del mondo stesso. E a questa domanda non posso che rimandare un’altra domanda proposta da Hillman: Come si può curare il singolo quando tutta la società è malata?

In un bel libro-intervista, Dove va l’anima?, lei ha parlato di una società, quella attuale, spiritualmente alla deriva. Ma spesso non ci si suicida, proprio perché si è troppo sensibili, e dunque perché si ha un’ anima? Il suicidio non è anche la forma di protesta di chi ancora possiede un’anima? Forse l’abbiamo detta grossa…

Sembra un fatto paradossale, ma per quanto ho potuto constatare spesso – anche se non sempre – ci si suicida per eccesso di vitalità, per esuberanza di investimento nella vita. Cioran esprime due giudizi molto acuti in proposito: innanzitutto che: “Ci si uccide, si continua a ripetere, per debolezza, per sfuggire al dolore o alla vergogna. Solo che non si vede che sono proprio i deboli, quelli che, lungi dal tentare di sfuggirvi, al contrario vi si adattano, e ci vuole energia per strapparsene in maniera definitiva”; poi, che “Non ci si uccide, come comunemente si pensa, in un accesso di demenza, ma in un accesso di intollerabile lucidità (…). L’atto si fonde allora con l’ultimo soprassalto dello spirito che riprende se stesso e che prima di annientarsi raccoglie tutte le sue forze, tutte le sue facoltà”. C’è una verità in queste considerazioni, una verità documentata dalla farmacologia. È sempre prudente ed opportuno tenere d’occhio i pazienti in trattamento con farmaci durante le prime settimane di terapia, perché l’attivazione potrebbe aumentare il rischio della scelta autosoppressiva, difficile per mancanza di forza e di determinazione nella fase depressiva precedente la cura. Considerato in termini “volontaristici”, il suicidio appare perciò come un gesto decisionista, un atto che prevede la determinazione a siglare simbolicamente con il sangue un proprio pensiero, un proprio stile. Sia che si tratti di tagliare con uno stato di sofferenza interiore, sia che voglia esprimere una denuncia contro una condizione insostenibile, il suicidio è sempre un’azione personale e di potenza. Per concludere in maniera “pericolosa” – a parte determinate condizioni chiaramente psicopatologiche – non si può non dare ragione a un grande suicida come Jean Améry, che in Levar la mano su di sé rivendica l’ultimo atto come un salto che supera la logica del buon senso e della psicologia. Di fronte allo scacco (échec) della vita – personale, ideale, politica ecc. – l’Autore riconosce che “in linea di principio è possibile vivere (…) in maniera tuttavia vergognosa”, però l’umanità e la dignità non possono prescindere da un principio inderogabile, che: “La morte libera è un privilegio dell’uomo”. Ma qui il terreno si fa scivoloso… In sostanza, è vero però che è l’anima – o almeno il sentimento che questa entità esista – a dare il valore ultimo al suicidio. Non si può decidere di morire se, in realtà, si è già morti dentro. Quando la parola ha concluso la sua opera di convincimento e di spiegazione, non resta l’esempio concreto per sottolineare la propria idea e il proprio carattere.
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(a cura di C.G. )

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