mercoledì 24 dicembre 2008

I LIBRI DELL’ANIMA - recensioni
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Bisogna essere morti per essere degni di pietà?
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di Valter Binaghi

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Esistono scrittori, e sono i più, che sono essenzialmente narratori di miti o favole collettive: nella propria personale creazione artistica danno forma alla sensibilità ma anche anticipano le grandi svolte di un epoca e forniscono al loro tempo un linguaggio rinnovato ma condivisibile, quell’illusione collettiva che chiamiamo cultura. Che Genna non sia uno scrittore di questo genere lo ha dimostrato a mio avviso con Hitler, in cui il suo raffinatissimo artigianato non è riuscito ad andare oltre lo stereotipo del XX secolo di Hitler come incarnazione del male: libro che ho definito malignamente l’opera di uno che studia da ministro della cultura.
Per fortuna forse non sua ma nostra, Genna è scrittore di altra tempra e di altro destino. La sua è scrittura sciamanica, di chi racconta essenzialmente sè stesso non per autoidolatria narcisistica ma perchè in sè stesso partorisce, incarna, crocifigge e resuscita il senso stesso di un divenire che sfugge alla formula e si dipana nella purezza di un canto per il quale la distinzione tra poesia e prosa risulta ormai inutile e ininfluente. In questo senso e direzione il talento letterario di Giuseppe Genna non mi pare avere uguali in questo paese, e comunque nessun libro come questo da molto tempo a questa parte mi ha precipitato negli abissi, privandomi di difese e preconcetti da scrittore vero o presunto come Ishtar dei suoi veli davanti al Dio della morte.
Italia De Profundis, (Minimum fax, pp. 348, Euro 15,00) è tale storia del 2007: la morte del padre, l’impossibilità di un amore, la deriva in esperienze sordide e squalificanti che vorrebbero suicidare definitivamente la mancanza dell’amore medesimo, il festival del cinema di Venezia e il trionfo bacchico delle mitologie del rappresentare, fino all’orgia dell’idiozia italiota di un Villaggio Vacanze. Ma a che serve riassumere linearmente una scrittura che la linearità rifiuta in linea di principio? Leggetelo e basta, adoratelo e compatitelo come ho fatto io, riconoscete la genialità quando è evidente e stigmatizzatene l’infantilismo (perchè nessuna mente razionale sta al passo con la danza dello sciamano, neanche quella dello sciamano medesimo). Alla fine, se vi va, scrivetene soprattutto a lui. Genna è lo scrittore più generoso che conosco, nel senso che è capace di interloquire lungamente e con profondità con chiunque si interessi sinceramente dello scrivere, dal celebrato recensore all’ultimo dei blogger.
Io, per parte mia, nel ringraziarlo di quest’opera che mi ha tenuto compagnia per giorni (e in un luogo della mia anima in cui lascio entrare pochi e malvolentieri) gli voglio porre solo tre domande, in cui si celano delle riserve.
1) Nel romanzo un personaggio accosta Genna e si complimenta con lui per il Dies Irae, affermando di avervi riconosciuto episodi di storia italica da lui stesso vissuti. Genna ne constata il fallimento del libro: tutto l’autore avrebbe desiderato, tranne fornire materia di identificazione a un lettore ormai mutato in “spettatore”. La domanda è: Giuseppe, credi che l’Advaita Vedanta, il catarismo metodologico, la magia della “Golden Dawn” o di Crowley, cioè i riferimenti di cui dissemini il testo e che costellano l’interpretazione autoriale della tua voce narrante, siano più autenticamente post-romanzeschi e post-spettacolari? Non sai che queste cose sono ormai presenti nella biblioteca dell’assessore di Rogoredo, o nei siti New Age che spacciano post-umano a buon mercato? In questo modo, oltre a innalzare forche caudine per il lettore separandolo dalla purezza della tua scrittura, non contribuisci tu stesso alla “spettacolarizzazione” che temi?
2) L’autoisolamento, la negazione del mondo, l’impazienza dell’apocalisse, sono la condizione esistenziale di una vocazione “sciamanica” che io ti riconosco con sincerità. Ma fare di questo il metro di giudizio della condizione umana come tu fai, e trascinare nella stessa volgare insensatezza l’egotismo sfrenato dei farisei e la custodia della forma dei padri, bollandoli ugualmente come ricerca di una hitleriana e robotica linearità, non ti trascina a un disprezzo furibondo e universale per l’umana condizione che forse non vorresti? L’unica autentica pietà per un essere umano che si coglie nel tuo testo è quella per il padre defunto. Bisogna essere morti per essere degni di pietà?
3) La stessa indignazione morale e civile per questo paese “devastato e vile”, non perde forza e valore dal momento che niente e nessuno è salvato e salvabile, non ci sono Lari nè Penati ed Enea resta a contemplare la città in fiamme, rapito in un’ebbrezza che a tratti lo rassomiglia un po’ troppo a Nerone?
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Valter Binaghi
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